Controllo democratico-comunitario e distribuzione del surplus
2 Gennaio 2016Gianfranco Sabattini
L’economista radicale Yanis Varoufakis, impostosi, in qualità dei membro del primo governo Tsipras, come intransigente oppositore dell’austerity, adottata quale cura anticrisi dall’Europa comunitaria ai Paesi dai conti pubblici in deficit, ha scritto di recente il libro “E’ l’economia che cambia il mondo. Quando la disuguaglianza mette a rischio il nostro futuro”; in esso, egli ricorre spesso ad esempi letterari che, se possono avere un qualche effetto a livello di immaginario collettivo, ne hanno meno ai fini di un’analisi realistica dello stato del mondo.
La tesi di Varoufakis, critica nei confronti del modo capitalistico di produrre, è semplice nella sua formulazione: nelle società contemporanee domina la convinzione errata secondo la quale l’economia corrisponde al mercato, ovvero a quella particolare istituzione economica che costituisce la “sfera degli scambi”; questo tipo di mercato, però, secondo Varoufakis, esisteva ancor prima della scoperta dell’agricoltura, nel senso che quando gli uomini vivevano di caccia e di raccolta, se uno di essi “offriva una banana chiedendo in cambio una mela, si realizzava una forma di scambio”, nel quale il valore della mela era equivalente a quello della banana. Si trattava di uno scambio rudimentale, all’esterno però del contesto che, successivamente, con la comparsa dell’agricoltura stanziale, prenderà il nome di economia, consentendo agli uomini, nella pratica delle attività svolte per il loro sostentamento, di passare dalla caccia e dalla raccolta alla produzione di ciò che veniva destinato allo scambio.
Con l’avvento dell’agricoltura – afferma Vaoufakis – l’economia si è “rivelata” agli uomini e, “da quel momento e senza sforzi sono cambiate anche le società umane”, per via del ruolo svolto dalla comparsa dell’”elemento fondamentale di una vera economia, il surplus”, ovvero quella parte della produzione che rimane dopo la reintegrazione dei fattori produttivi (sementi e forza lavoro umana). Ma la produzione di surplus agricolo ha generato il radicale cambiamento del modo di vivere insieme, per via del fatto che ha causato la comparsa di vari fenomeni, quali la scrittura, il denaro, il debito, il credito, lo Stato, la burocrazia, le tecniche di produzione, il clero e gli eserciti.
Tutti questi fenomeni si giustificavano l’uno con l’altro, considerato che, senza la scrittura, non sarebbe stato possibile registrare, con l’impiego del denaro, il valore del debito e del credito di ogni singolo componente la comunità nei confronti degli altri. Ma il denaro ha avuto bisogno di un “corpo collettivo”, lo Stato, attraverso il quale veniva garantito il suo valore; d’altra parte, lo Stato non avrebbe potuto esistere e funzionare all’interno di una comunità senza surplus, considerato che esso, per la gestione degli affari pubblici, aveva bisogno dei burocrati al cui mantenimento veniva destinata una parte del surplus prodotto; così come un’altra parte di esso era necessaria per il mantenimento di un esercito, da porre a tutela dello stesso surplus contro possibili minacce esterne. Il surplus agricolo, inoltre, ha provocato “una spinta sorprendente” alla dinamica delle tecniche di produzione, il cui progredire ha creato autonomamente nuovi bisogni, precedentemente inesistenti.
Il modo in cui i vari fenomeni generati dal surplus agricolo si sono intrecciati tra loro ha originato delle gerarchie sociali, che hanno concorso a rendere possibile una distribuzione iniqua dello stesso surplus, a favore di coloro che risultavano dotati di potere sul piano politico, sul piano sociale e su quello militare; il consolidamento e la conservazione di questo stato di cose sono stati resi possibili, osserva Varoufakis, dall’“elaborazione di una dottrina legittimista” volta a convincere le popolazioni che i potenti “avevano il diritto di essere tali”, perché “l’accesso al potere derivava da una volontà superiore. Che le cose stavano come stavano per grazia di Dio”, la cui rappresentanza in terra era garantita da una classe di sacerdoti, il cui compito era quello di rivelare il volere divino.
Infine, il surplus agricolo ha dato origine, secondo Varoufakis, a “agenti patogeni omicidi”, originati dalla “concentrazione di biomassa” (prodotti dell’agricoltura, uomini e animali), dovuta alla gestione del surplus all’interno di agglomerati urbani. La concentrazione si è rivelata un “colossale laboratorio biochimico, all’interno del quale batteri e virus si sono sviluppati rapidamente”, originando malattie che hanno falcidiato le singole comunità. A lungo andare, i membri delle comunità si sono adattati ai batteri ed ai virus, diventandone dei portatori sani; così – afferma Voroufakis – quando sono penetrati in zone abitate da popolazioni che non conoscevano l’agricoltura, i loro Stati, senza bisogno di brandire la spada, le hanno conquistate: una stretta di mano o uno starnuto sono stati sufficienti a dominare i nativi. Per questa via si è consolidato nel tempo il colonialismo e il dominio su gran parte del mondo da parte delle prime economie agricole e, nello stesso tempo, si è diffusa a livello planetario l’iniqua distribuzione del surplus globale a vantaggio delle economie più ricche e potenti.
In conclusione, secondo l’economista greco, il trionfo dei valori di scambio sui valori d’uso ha segnato l’avvento dell’economia di mercato; questa ha cambiato il mondo, tanto in positivo che in negativo: da un lato, nel tempo, ha liberato gli uomini dall’oscurantismo, dalla schiavitù e dall’essere costretti a vivere di raccolta e di caccia, facendo nascere l’idea di libertà e il convincimento di poter acquisire, con la Rivoluzione industriale, una capacità produttiva sufficiente a riscattare l’intera umanità dalla povertà; dall’altro lato, però, ha dato luogo a una miseria e a un’infelicità mai sperimentate prima, originando una grande contraddizione, la “coesistenza di ricchezze favolose, e miseria indicibile. In questo modo, le disuguaglianze create dalla rivoluzione dell’agricoltura […] sono diventate ancora maggiori a causa delle nuove problematiche provocate dalla Rivoluzione industriale e dal trionfo dei prezzi sui valori”. Esiste un rimedio a tutto ciò?
Per Varoufakis il rimedio esiste, e consiste nell’esercizio di un controllo democratico-comunitario sull’uso del denaro e sulla distribuzione del surplus sociale, fuori da ogni soluzione tecnica o apolitica; se ciò non avverrà e sarà sacrificata la cura dell’interesse comune, i potenti della terra gestiranno l’economia-mondo in modo da far crescere convenientemente le crisi e disintegrare le società.
Ciò che appare poco convincente della “ricetta” proposta da Varoufakis sono, in sostanza, i vantaggi che presuntivamente potrebbero derivare da un esaustivo controllo “ope legis” dell’economia, senza dimostrare come, attraverso tale controllo di natura democratica, sarebbe possibile garantire all’umanità la disponibilità della capacità produttiva in grado di rimuovere potenzialmente le ingiustificate disuguaglianze che caratterizzano le condizioni di vita di gran parte della popolazione mondiale.
E’ senz’altro vero che la concentrazione della ricchezza è un fatto negativo, che possiede in sé la forza disgregatrice e distruttiva dell’organizzazione sociale dell’economia-mondo. A dimostrarlo può essere utile perifrasare l’esperimento mentale sugli esiti negativi della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, formulato già nel XIX secolo in “Progresso e libertà” dall’economista americano Henry George. Se l’economia di mercato e il progresso tecnologico continueranno ad approfondire la concentrazione del surplus sociale, determinando tra l’altro l’espulsione continua e definitiva di quote di forza lavorativa dalle attività produttive, è possibile pensare ad un momento in corrispondenza del quale la produzione sarà ottenuta azzerando totalmente l’occupazione. In tal modo, i capitalisti, cioè i proprietari del fattore produttivo capitale, potranno appropriarsi dell’intera produzione conseguita senza l’impiego di alcun lavoratore. L’intera forza lavorativa disponibile cesserà di partecipare, in una misura qualsiasi, alla distribuzione della ricchezza prodotta (espressa dalla produzione realizzata senza lavoro). In corrispondenza di tale stato di cose, per quanto il costo della “riproduzione”, meglio della sopravvivenza, della forza lavorativa disponibile, ma non utilizzata, possa essere determinato nello stesso modo del “costo della biada per i cavalli” o del “costo dell’olio lubrificante per il funzionamento delle macchine”, la produzione eccedente il “costo di riproduzione/sopravvivenza”, rimanendo invenduta, mancherà di tradursi in ricchezza reale, riducendo il sistema sociale a vivere all’interno di un’economia funzionante in regime di uno stato stazionario regressivo. Questo limite, affermava George, al quale conduce l’economia di mercato “può sembrare molto remoto perfino impossibile a raggiungersi”; ma è un punto verso cui tende sempre più fortemente il funzionamento dei sistemi economici caratterizzati da una crescente concentrazione della ricchezza prodotta. Un limite, perciò, che deve essere tenuto nella debita considerazione nel formulare le procedure attraverso cui regolamentare la distribuzione del surplus sociale.
Ammesso che la regolamentazione possa essere realizzata, occorre stabilire se esistono le procedure idonee a renderla possibile. Nelle società capitaliste è largamente condivisa l’idea che i soggetti privati riescano a governare il sistema economico meglio delle istituzioni pubbliche, grazie alla cooperazione intersoggettiva. Questa individua, non tanto la relazione di solidarietà esistente fra i singoli soggetti operanti all’interno del sistema sociale, quanto piuttosto le forme di reciproco appoggio che possono svilupparsi a seguito di una riflessione culturale sui reali interessi di soggetti razionali, anche se portatori di valori differenti.
In questa prospettiva, la propensione di ogni soggetto ad agire a titolo individuale non va intesa necessariamente come causa di comportamenti contraddittori, in quanto sia l’individualismo che la propensione a collaborare possono essere entrambi compresenti, purché la collaborazione sia l’esito di una libera scelta e sia improntata ai caratteri della volontarietà, della modificabilità e della temporaneità. La cooperazione, perciò, è possibile anche con la percezione della reciproca diversità, in presenza della consapevolezza della negatività della competizione di tutti contro tutti.
In tal modo, l’esigenza di trovare soluzioni concordate, soddisfacenti per i soggetti operanti all’interno di un’economia di mercato, può essere avvertita anche da soggetti portatori di interessi diversi; ciò perché i soggetti possono trovare più vantaggioso instaurare una collaborazione finalizzata all’accordo per il raggiungimento dei loro differenti fini, anziché vivere in uno stato di permanente competizione. Perciò, la cooperazione, se promossa e regolamentata, può anche risultare compatibile con il funzionamento di un’economia di mercato, quando siano messi sotto controllo democratico, non la libertà di usare il denaro, ma gli esiti negativi originanti dall’iniqua distribuzione del surplus denunciata da Varoufakis.
2 Gennaio 2016 alle 17:32
La parte di premessa (la creazion del surplus nelle società contadini mi sembra una fedele rilettura del famoso testo di Diamond, Armi,aciaio e malattie.Quanto alle conclusioni mi pare non tengano conto dell’evoluzione dei fattori strutturali di priduzione (vedi fra le altre alcune suggestioni di Rifkin sulla società dei produttori-consumatori). Senza cin cuò ngare spazio alla soggettività politica. Cosa ne pensa? Ugo Sturlese