Corpi e violenze istituzionali. Regina Cœli 1903
1 Dicembre 2013Daniele Pulino
Quando lo ebbero disteso e legato con le cinghie, Paolo disse al centurione che era presente: “Vi è lecito flagellare un cittadino romano, che non è stato ancora condannato?” Il centurione, udito questo, andò a riferirlo al tribuno, dicendo: “Che stai per fare? Quest’uomo è romano!” Il tribuno andò da Paolo, e gli chiese: “Dimmi, sei romano?” Ed egli rispose: “Sì”. Il tribuno replicò: “Io ho acquistato questa cittadinanza per una grande somma di denaro”. E Paolo disse: “Io, invece, l’ho di nascita”. Allora quelli che stavano per sottoporlo a interrogatorio si ritirarono subito da lui; e anche il tribuno, sapendo che egli era romano, ebbe paura perché lo aveva fatto legare*.
Un’immagine suggestiva del rapporto tra cittadinanza e corpo ci è stata tramandata dagli atti degli apostoli. Paolo di Tarso, imprigionato per aver predicato contro la legge ebraica, viene legato per essere flagellato. Tuttavia è cittadino romano e non può essere sottoposto a pene corporali. Il magistrato deve ascoltare la sua difesa. Il racconto biblico ci ricorda come, dai tempi del diritto romano, la piena cittadinanza corrisponde a un corpo nei confronti del quale i poteri istituzionali incontrano dei limiti. Si tratta di una questione centrale che si ripropone con la nascita dei diritti di cittadinanza moderni. Questa è spesso identificata con l’Habeas Corpus Act del 1679, il diritto della persona arrestata di essere portata davanti a un giudice, che sancisce l’inviolabilità personale. Habeas corpus, che tu abbia corpo, non metteremo le mani sul tuo corpo. Nelle moderne democrazie occidentali il passaggio dalla condizione di suddito a quella di cittadino si fonda su questa promessa che fatica ad affermarsi compiutamente.
Il libro di Mario Da Passano Il delitto di Regina Cœli, recentemente ripubblicato dalla casa editrice Il Maestrale (2012), rappresenta uno strumento per interrogarsi sulla persistenza di negazioni concrete del diritto all’integrità del corpo. Il libro ricostruisce le vicende legate alla morte del marinaio Giuseppe D’Angelo, arrestato nell’aprile del 1903 dopo una discussione con il capitano di golletta che lo aveva licenziato. A causa di un omonimia, D’Angelo è accusato ingiustamente di furto e condotto nel carcere di Regina Cœli. Qui a seguito delle sue proteste, viene legato al letto della sua cella e muore dopo cinquanta ore di contenzione. La sorprendente analogia con i casi di cronaca recente di persone morte in carcere o in altre istituzioni, non si limita però alla drammatica morte del marinaio. La minuziosa ricostruzione di Da Passano ci permette di guardare non solo alla violenza delle pratiche carcerarie in auge nell’Italia liberale, ma anche quell’insieme reticolare di poteri, saperi e pratiche che si annoda intorno al corpo di Giuseppe D’Angelo. Nel 1903 l’uso di strumenti di contenzione è previsto dal regolamento penitenziario del 1891 e già negli anni precedenti più di un caso ha destato scalpore. La vicenda di Giuseppe D’Angelo diventa uno scandalo nazionale. Del caso si interessano diversi giornali. In particolare l’Avanti associa la vicenda a quella del falegname anarchico Romolo Frezzi, morto per le percosse ricevute in carcere dalla polizia nel carcere di S. Michele, mentre il Messaggero ricollega la morte ai sistemi di contenzione usati nel carcere di Regina Cœli. Vengono organizzate manifestazioni popolari di protesta e anche il parlamento si occupa della vicenda. Un ruolo chiave è svolto dal partito socialista che mira alla completa modifica del regolamento carcerario. Ma anche diversi deputati del centro e della destra presenteranno interrogazioni sulla morte di D’Angelo.
Il caso arriva al Tribunale di Roma con un processo che vede come imputati alcune guardie, il medico e il direttore del carcere. Nel corso del dibattimento si arriva a dichiarare che la camicia di forza non era stata utilizzata a scopi punitivi ma che, “trattandosi di sospetto alienato”, era stata applicata seguendo le disposizioni del regolamento, sotto la responsabilità del medico. D’altro lato saranno numerose le attestazioni di stima verso lo stesso medico del carcere, del quale si sottolinea il suo operare scrupoloso a tutela dei detenuti. Con queste premesse il delitto di Regina Cœli resterà senza colpevoli. Il processo si chiude nel dicembre del 1903 con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il mese precedente era stata approvata una “riforma” del regolamento carcerario che aveva introdotto alcune garanzie nell’uso delle misure di contenzione. Erano stati in molti a sostenere la riduzione dei casi in cui la contenzione doveva essere applicata, ma solo poche voci si erano levate per condannarla pienamente. Così nelle prigioni, come ricorda lo stesso Da Passano, le misure di contenzione continueranno a essere utilizzate al di fuori dai limiti previsti dallo stesso regolamento carcerario anche nell’Italia del secondo dopoguerra, che con l’art. 13 della Costituzione aveva sancito l’inviolabilità della libertà personale. Occorre però aggiungere un elemento che emerge dalla ricostruzione del caso D’Angelo. L’uso degli strumenti di contenzione è considerato ineliminabile nei casi di alienazione mentale, legittimato scientificamente dalla psichiatria dell’epoca, che si appresta a vedere approvata la legge istitutiva dei manicomi (L. n. 36 del 1904). È sulla base di questa legittimazione che la contenzione in carcere viene mantenuta. Da questa storia ne possiamo trarre un insegnamento a distanza. Ancora oggi medicina, tribunali e politica si muovono in una danza incrociata intorno alle violazioni dei corpi. Spesso rendendosi complici di quelli che Franco Basaglia chiamava crimini di pace, delitti del tutto simili alla morte Giuseppe D’Angelo. Ma è all’interno di questa danza che si possono aprire nuovi spazi di libertà, se il corpo del cittadino viene riconosciuto come limite invalicabile dai soggetti che occupano posizioni di responsabilità all’interno di queste istituzioni.
*Atti degli apostoli 25-29, testo della versione de La nuova Diodati.