CPR di Macomer: usciamo dalla nebbia e dall’egoismo
16 Febbraio 2020[Michele Salis]
Nelle ultime settimane la fitta coltre di nebbia che per due anni ha accompagnato il dibattito attorno all’apertura del centro di detenzione e deportazione di Macomer (chiamato CPR per farlo sembrare più umano) si sta finalmente iniziando a diradare. Per oltre due anni il livello di discussione è rimasto ancorato a due posizioni: i sostenitori del CPR, che lo promuovevano in nome del lavoro e con una garanzia di “sicurezza”, e i suoi oppositori locali, che proprio per garantire la “sicurezza” dei macomeresi non potevano fare arrivare in paese dei pericolosissimi “clandestini” (status giuridico inesistente). Insomma tutto girava attorno ai problemi della gente fuori dal CPR, nonostante il fatto che in 20 anni di continue violazioni dei diritti umani e violenze dentro i vari CIE, CARA, CPR, nulla di grave sia mai accaduto FUORI.
Per due anni nessuno, o quasi, ha parlato delle persone costrette a finire dentro un super carcere, senza avere commesso alcun reato, senza garanzie processuali, senza poter avere o ricevere contatti, sballottati da un posto all’altro in vista della deportazione nel paese da cui sono fuggite. Nessuno ha parlato delle condizioni aberranti, delle dinamiche interne, delle gravi violenze che avvengono normalmente dentro tutti i CPR, perché la violenza nei CPR è il sistema, non una eccezione.
Un contesto in cui migliaia di persone sono costrette a nascondersi, non hanno diritti, non esistono, vivono nella marginalità e nello sfruttamento perché sono incarcerabili in qualsiasi momento, solo sulla base dell’assenza di un documento che la legge si rifiuta di rilasciare secondo criteri chiari, di diritto e di giustizia: questa è la violenza cui presiede il sistema dei CPR. Rinchiudere per un tempo indefinito persone che sono disposte a tutto pur di non rientrare nel paese da cui sono fuggite, e che hanno ormai solo il proprio corpo come strumento per affermare la propria dignità umana, senza diritti, vuol dire creare un sistema di violenza, che sulla violenza si mantiene.
Gli infiniti casi di autolesionismo, di suicidi, di proteste e rivolte che si sono sempre registrati nei CIE prima e oggi nei CPR, sono dovuti a questa violenza. I metodi di controllo violenti, con pestaggi, contenzioni, punizioni varie, sedazioni collettive, che si sono registrati in numerosi casi, sono parte del sistema CIE/CPR. Se c’è una sicurezza in pericolo nei CPR, questa è in primis quella delle persone che vi sono rinchiuse contro la loro volontà; solo successivamente quella degli operatori, che possono comunque scegliere di dimettersi e uscire da questo sistema di violenza, tutelando sé stessi. Se c’è una sicurezza tutelata, è quella degli speculatori che si aggiudicano gli appalti per la gestione opaca di queste strutture di violenza istituzionalizzata, che sperimentano sulla pelle dei migranti e dei diritti umani il modello delle carceri private.
Leggendo le dichiarazioni dell’Amministrazione Macomerese e degli esponenti del “Comitato contro il CPR” possiamo notare un tratto comune: entrambi sono disponibili ad accogliere i “regolari”, ed entrambi rifiutano gli irregolari (chi con il CPR, chi coi “porti chiusi”), senza interrogarsi minimamente su cosa significhi questa distinzione, quali basi morali e giuridiche abbia. A tal proposito chiariamo subito la nostra posizione: per noi non esistono migranti buoni e migranti cattivi, sono tutti esseri umani. Non importa se rifugiati o “migranti economici”, anche perché non è minimamente chiara questa distinzione, spesso sancita sulla base di criteri molto labili, nella più pietosa ignoranza dei contesti di provenienza delle persone giudicate. Partendo da questo semplice presupposto possiamo iniziare a orientarci nella nebbia, e distinguere parti e controparti: capire che nessuna condizione giuridica personale sancita da uno Stato giustifica la costruzione di campi di concentramento, e la violazione dei più elementari diritti umani, come quello di non essere incarcerati senza capi d’imputazione e giusto processo.
Nelle ultime settimane, con l’apertura del Centro, i nodi sono venuti al pettine, e sono venute fuori le prime denunce dei gravissimi fatti che inevitabilmente dovevano accadere nel CPR di Macomer. Per questo bisogna ringraziare alcune persone dal grande coraggio e con la schiena dritta, che con grande umanità e professionalità hanno fatto una prima breccia nella nebbia di disinformazione che per due anni ha accompagnato il dibattito sul CPR. Ma dobbiamo essere consapevoli che questo è solo l’inizio, che il sistema CPR è fatto per causare questi fatti e anche di peggio, e perciò dobbiamo fare quanto è in nostro potere per farlo cessare. Perciò il nostro impegno è dilatare questa breccia che si è aperta nella nebbia del sistema CPR, anche grazie a un variegato fronte solidale e antirazzista che si sta iniziando a mobilitare. Le modalità e i livelli di opposizione al CPR saranno diversi: l’uno non esclude l’altro se l’obiettivo e i presupposti son gli stessi.
Fin qui sul CPR si è quasi sempre adottata una prospettiva egoista, etnocentrica, che considerava solamente, come vittime o come beneficiari, chi lo vive da fuori. Noi vogliamo ribaltarla: vogliamo contribuire ad accendere i riflettori sul dentro, e aiutare concretamente le sue vere vittime, i suoi prigionieri. Per far ciò lavoreremo per conoscere e solidarizzare con chi lotta da dentro perché ingiustamente rinchiuso, contribuendo a portar fuori la sua voce e la sua rabbia. E lavorando per contrastare l’atmosfera di allarme artificiosamente costruita a Macomer.
Il CPR di Macomer va chiuso, così come tutti gli altri centri di detenzione, tortura, disumanizzazione, annichilimento e deportazione. Non possiamo rimanere indifferent* di fronte a una tale ingiustizia che avviene dietro casa nostra.
Michele Salis, macomerese è copresidente dell’ASCE, l’associazione sarda contro l’emarginazione.