Crisi del capitalismo e smarrimento dell’etica del risparmio secondo Dahrendorf
1 Marzo 2016Gianfranco Sabattini
Di recente è apparso in libreria un piccolo libro di Ralf Dahrendorf, noto sociologo ed economista tedesco, ma naturalizzato inglese; esso s’intitola “Dopo la crisi. Torniamo all’etica protestante? Sei considerazioni critiche”, scritto poco prima della morte dell’autore, nel 2009. L’oggetto trattato è la crisi economica scoppiata nel 2007/2008 in seguito al crack subito dal mercato immobiliare americano; questa, incominciata a partire dai mercati finanziari, si è diffusa rapidamente in tutto il mondo, coinvolgendo l’economica reale, oggi considerata da molti osservatori e critici del modo capitalistico di produrre come causa di una “profonda svolta sociale e fors’anche politica”.
Le spiegazioni del crollo socio-economico dell’ordine capitalistico, secondo Dahrendorf, sono varie, come varie sono le reazioni alle conseguenze negative provocate sul piano sociale, soprattutto dal crollo dei mercati finanziari. Dal punto di vista economico, le spiegazioni evocano, in particolare, le abitudini comportamentali degli operatori finanziari, per via del fatto che le transazioni da essi promosse risultavano “derivate”, cioè lontane dalla possibilità di valutarne il rischio, poiché prive di ogni solido rapporto con la realtà. I colpevoli di questo stato di cose sono stati certamente i gestori dei mercati finanziari, in particolare i banchieri; ma lo sono stati anche i politici che, a parere di Dahrendorf, “hanno spinto la moda della deregolamentazione tanto avanti che, alla fine, nessuno è stato più in grado di controllare quel che accadeva sui mercati finanziari. La fede nella virtù del mercato capace di regolarsi da solo si era trasformata in un’eresia fondamentalista. E così con essa si era formata una nuova versione della concezione dello Stato come guardia notturna”.
Dahrendorf riconduce la spiegazione di quanto è accaduto a un “cambiamento di mentalità”, cioè al cambiamento dei valori dominanti in seno alla società, che “danno il tono alla vita degli uomini”, guidando “i comportamenti concreti che si manifestano dapprima in alcune minoranze e si impongono poi in intere società”; ciò significa che il cambiamento dei valori non tocca solo “gli atteggiamenti degli imprenditori e dei manager di ogni tipo, bensì anche quelli dei consumatori, cioè della maggior parte dei cittadini”, sebbene questi ultimi siano propensi ad individuare le colpe in altri, piuttosto che fare autocritica.
Queste considerazioni richiamano alla memoria la tesi di Max Weber, secondo il quale la nascita dell’economia capitalistica ha richiesto “una diffusa disponibilità a differire il soddisfacimento immediato dei bisogni”, nel senso che essa ha potuto mettersi in moto solo nel momento in cui gli uomini hanno rinunciato a godere subito dei risultati del loro impegno attraverso il lavoro. A partire dalla fine della prima guerra mondiale, osserva Dahrendorf, il cambiamento di mentalità, del quale prima si è detto, ha incominciato a manifestarsi, traducendosi nello “sviluppo di nuove abitudini di acquisto all’interno di sistemi sociali fortemente orientati al consumo”. Ciò, nel funzionamento del capitalismo, ha innescato un contraddittorio “paradosso esplosivo”, in quanto, per potersi conservare in una configurazione di equilibrio ordinato, l’economia richiedeva che gli uomini, in quanto produttori, conservassero la vecchia mentalità che li motivava a differire l’uso immediato dei risultati del loro lavoro; ma, da un altro lato, essa richiedeva agli stessi uomini, in quanto consumatori, esattamente l’opposto, contribuendo in tal modo a rimuovere i loro presupposti mentali giudicati razionali dal lato della produzione.
Le contraddizioni del paradosso sono esplose dopo i “gloriosi trent’anni” seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale, allorché i livelli di reddito acquisiti dalle popolazioni dei sistemi capitalistici sono valsi a favorire la diffusione di una “mania consumistica”, che ha trasformato il capitalismo da “capitalismo di risparmio” in “capitalismo di consumo”. Proprio nel momento in cui questa trasformazione si è consolidata, afferma Dahrendorf, è iniziato anche “il transito dal reale al virtuale, dalla creazione di valore al commercio dei derivati”; in tal modo, è stato stimolato il godimento di beni prima che il corrispondente valore in termini di risparmio si fosse formato e, dunque, prima della formazione dei mezzi necessari per pagare i beni consumati, supplendo alla mancanza dei mezzi col ricorso all’indebitamento. Poiché non si possono contrarre debiti all’infinito, è stata inevitabile la creazione di una situazione che si è ripercossa negativamente sull’economia reale, con l’aggravante della propensione a sostituire i debiti privati con quelli pubblici.
Le crisi, osserva Dahrendorf, una volta insorte, nel caso favorevole possono essere “temporali purificatori”, nel senso che esse possono favorire “un cambiamento di mentalità che alla fine induca nelle persone un atteggiamento più prudente rispetto a quello promosso dal capitalismo di debito”. Dahrendorf non indica quali possano essere gli strumenti sociali più idonei a favorire il cambiamento di mentalità necessario; sta di fatto, comunque, che né la destra né la sinistra hanno saputo approfittare della crisi per inaugurare una politica pubblica in grado di promuovere quel cambiamento, per assicurare al futuro una prospettiva di successo. Di fronte alla crisi, l’incapacità dei partiti ad elaborare una valida politica di risanamento dell’economia ha causato la reazione popolare, consegnatasi spesso alla leadership di demagoghi che, nelle situazioni di maggior tensione sociale, l’hanno spinta a sterili proteste, spesso anche violente.
Poiché l’umore di fondo – afferma Dahrendorf – “impastato di rabbia e sfiducia non scomparirà tanto rapidamente”, esso costringerà, volenti o nolenti, tutti i cittadini a cambiare i loro comportamenti; di fronte alla probabilità che ciò accada, diventa legittimo domandarsi come apparirà il mondo dopo il superamento della crisi. Poiché è da escludere un ritorno all’etica protestante di weberiana memoria, per via del fatto che non è possibile portare indietro le economie moderne a prima di Keynes, non è però da escludere una “rivitalizzazione di antiche virtù”, nel senso che “lavoro, ordine, servizio, dovere” si imporranno di nuovo come requisiti essenziali per riconquistare i livelli di benessere perduti; ciò perché, a tal fine, sarà necessario che gli individui non perdano contatto con la realtà, così com’è avvenuto con il capitalismo di debito.
Se non sarà possibile tornare al capitalismo di risparmio, sarà però necessario realizzare un ordine economico e sociale in grado di garantire che il soddisfacimento dei bisogni sia coperto dalla necessaria creazione di valore. A tale scopo, non basterà riproporre il “modello renano” (relationship oriented) di gestione di un capitalismo risanato, nella prospettiva di una mai definita “economia sociale di mercato”. Ciò in considerazione del fatto che il funzionamento dell’economia attraverso il solo consenso delle cosiddette “parti sociali” non sarà più sufficiente; sarà necessario, invece, ricondurre il capitalismo di debito a un “capitalismo responsabile”, realizzato attraverso il reale coinvolgimento nel controllo del funzionamento del sistema economico degli “stakeholders”, ovvero di tutti coloro che, in quanto fornitori, consumatori o in generale abitanti delle aree in cui operano le attività produttive, pur non possedendo, in qualità di “shareholders” (cioè di azionisti), quote di partecipazione azionarie nelle diverse articolazioni del sistema produttivo, hanno però un interesse all’equilibrato funzionamento di quest’ultimo.
Per gli stakeholders, conclude Dahrendorf, non sarà importante “tanto la cogestione quanto il riconoscimento dei loro interessi” da parte di chi gestisce il sistema produttivo e della necessità di ricostruire lo Stato sociale sulla base di “una combinazione finanziariamente sostenibile di flessibilità e sicurezza”. Questi obiettivi consentirebbero anche di riscattare il funzionamento del sistema economico dall’egemonia dei mercati finanziari dominati dalle banche (bank oriented), sempre propensi a fornire finanziamenti a debito alle attività produttive, in funzione dei profitti attesi, prescindendo dalla valutazione del tipo d’impatto che le decisioni d’investimento prese con l’unico obiettivo del solo profitto potranno avere sull’intero contesto sociale.
Le considerazioni prospettiche di Dahrendorf sono convincenti; esse però hanno il difetto di presupporre che le riforme istituzionali in gradi di ricondurre il processo decisionale riguardante il governo dell’economia al controllo degli stakeholders possano essere fiduciosamente ricevute “via fax dal cielo”. Poiché lo stesso Dahrendorf riconosce che di fronte all’insorgere della crisi, né la destra né la sinistra hanno mostrato d’essere all’altezza per inaugurare una politica pubblica in grado di consentirne il superamento, ciò che sarebbe forse necessario potrebbe essere individuato nell’urgenza che la società civile, anziché abbandonarsi a sterili proteste e affidarsi alle lusinghe dei demagoghi di turno, fosse lei stessa, dopo aver deciso di non lasciarsi più ammaliare dal capitalismo di debito, a richiedere con forza l’attuazione di una politica riformatrice; unicamente volta quest’ultima a realizzare un modello di governo del capitalismo non più informato al concetto “spugnoso” di economia sociale di mercato, ma al concetto, come lo definisce Dahrendorf, di capitalismo responsabile. Nella consapevolezza che, con il suo perseguimento, le generazioni attuali decideranno il modo in cui vivranno le prossime generazioni, senza lasciare loro il fardello di fare fronte a debiti e ad un’insicurezza esistenziale che esse non hanno minimamente concorso a causare.