Crisi economica, salario minimo, dimissioni volontarie per maternità e bonus maternità
16 Marzo 2019[Maria Tiziana Putzolu]
Le dimissioni volontarie per maternità attraverso i dati diffusi dall’Ispettorato Interregionale del lavoro relativi al 2017-2018 costituiscono un tema di grande attualità. Le chiameremo Valeria, Francesca, Milena e le altre, queste donne che hanno scelto di gettare la spugna perché tra un lavoro e la maternità hanno scelto di lasciare il lavoro. Forse per sempre, poiché il dato sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) evidenziare che solo 1 su 4 troverà una nuova collocazione nel mercato del lavoro.
A gettare la spugna e scegliere tra il lavoro e la cura di un figlio piccolo sono state in Sardegna, nel 2017, 592 donne e 90 uomini, e, nel 2018, 655 donne e 135 uomini. Sono in tutto 1.472 addetti nel biennio che lasciano il “posto”, di cui l’84% donne. Hanno diritto alla Naspi, ad intensità che varia a seconda del rapporto di lavoro che hanno deciso di chiudere. A immaginarli tutti insieme sono una grande platea, larga quanto un paese intero della nostra Isola, o tre volte la dimensione di qualche grande azienda che quando ha chiuso i battenti si è scesi, giustamente, in piazza.
La questione delle dimissioni volontarie per maternità è un fenomeno carsico, lento e progressivo, che mette alle corde le famiglie quando devono fare i conti con il lavoro e la cura dei figli. Un fenomeno difficilmente osservabile nella dinamica quotidiana in un periodo che vede i tassi di occupazione femminile migliorare, così come i tassi di attività femminile, sia nel Paese che in Sardegna. Alcuni dicono che questa è la ragione per cui si mettono meno figli al mondo. Credo, da tempo, che se è vero che se si fanno meno figli in Sardegna è per una lunga serie di ragioni, non solo legati al lavoro. Sarà forse perché sono mutati i comportamenti sociali e l’atteggiamento delle donne nei confronti della maternità nel corso degli ultimi decenni, ma non bisogna dimenticare, però, che è anche vero che quando si decide di mettere su famiglia inizia un vero e proprio percorso ad ostacoli.
Questo percorso investe, per la verità, entrambi i genitori, ma a scegliere se rimanere a casa o proseguire a lavorare sono, appunto, soprattutto le donne. Ma il tema su cui vorrei piano piano ‘atterrare’ riguarda anche altri aspetti, più generali, di cui dirò alla fine di queste riflessioni. L’identikit della lavoratrice che lascia il lavoro tra il 2017 e il 2018 è la rappresentazione di un quadro è sconfortante. Il profilo di chi si è dimessa volontariamente dal lavoro nel biennio 2017-2018 vede in pole position una donna che ha un’età compresa tra i 34 e i 44 anni (552) e tra i 29 e 34 anni (425), è per lo più italiana (ma si intravede già un numero di lavoratrici di origine straniera), lavora nell’impresa da non più di tre anni (691) e da oltre tre anni fino a dieci (467) come operaia (711) e come impiegata (511) nel settore terziario (1.086), in particolare nel commercio (262) e nei servizi di alloggio e ristorazione (218), nella sanità e nell’assistenza sociale (146) e con un contratto part-time (796).
Ha, prevalentemente, un solo figlio di neppure un anno (898). Dichiara di dover lasciare il lavoro per le difficoltà a conciliare il lavoro con la cura del piccolo per ragioni legate all’azienda dove lavora in 522 casi e per ragioni legate ai servizi di cura in 501 dai casi. Il danno per le lavoratrici e i lavoratori e per tutta la società sarda è irreversibile: il lavoro che si è lasciato è un lavoro che non viene quasi mai ritrovato dalla stessa lavoratrice, la quale spesso rinuncia ed esce definitivamente dal mercato. È il danno più grave di questa situazione. Come si possono interpretare questi dati? È di tutta evidenza che chi lascia il lavoro per ragioni legate alla maternità sono lavoratrici di fascia reddituale abbastanza bassa, considerato che lavorano spesso con un contratto part – time in settori produttivi assai fragili, come nel caso del piccolo commercio o la ristorazione, o nell’assistenza sociale.
Questi dati confermano che all’interno di un mercato del lavoro debole a pagarne le spese sono proprio soprattutto le lavoratrici che arrivano sempre più tardi alla maternità e, anche per via della retribuzione bassa e dei ritmi di lavoro, spesso per turni, incessanti come è tipico nei servizi, nella ristorazione o nel commercio, non possono affrontare o sostenere costi molto elevati per i supporti di cura del neonato, visto che a lasciare sono per lo più donne il cui bambino ha meno di un anno di età. Da una breve indagine svolta in questi giorni dall’Ufficio della Consigliera Regionale di Parità risulta che chi si rivolge ai servizi scolastici privati sia per le scuole materne che per le scuole elementari, le più gettonate nelle scelte dei genitori che lavorano per via dell’offerta di servizi di accoglienza, mensa e doposcuola per due bambini da ‘sistemare’ durante l’orario di lavoro di uno o entrambi i genitori, è necessario sborsare non meno di 700€ al mese, una cifra che spesso è più alta della stessa retribuzione della lavoratrice con un profilo come quello delle lavoratrici che si dimettono volontariamente.
Un lavoro fragile e sempre più povero e individualizzato. Che il lavoro sia diventato sempre più debole e fragile è cosa certa e nota da qualche decennio. Che sia più povero è il tema ‘nuovo’ e che deve tornare al centro delle politiche del lavoro. L’accordo interconfederale del 9 marzo 2018, siglato da Confindustria e CGIL CISL e UIL, sottolinea un cambio di passo delle relazioni industriali che arriva da lontano e, per molti aspetti, archivia il periodo della concertazione e forse anche del ruolo ‘politico’ dei sindacati. Molti anni sono passati da quell’art. 8 contenuto nel D.l. 138 del 13 agosto 2011 (convertito con la legge 148 il 14 settembre del 2011) che inaugurava la stagione dei contratti di prossimità, timidamente contrastato da una ‘postilla’ con il naso lungo che impegnava le parti storicamente in gioco nella regolazione del mercato del lavoro ad un ‘non agire’.
‘Per affrontare la crisi’ è ormai l’incipit di contratti, il mantra di articoli che elogiano la contrattazione di prossimità, e la pone come la più adatta ad affrontare la crisi (di indubbia pregnanza), mentre si affacciano sulla scena delle relazioni industriali, dentro un campo di gioco che allarga i confini nazionali e ingloba soggetti contrattuali, datoriali e sindacali, attori di dubbia legittimità (una volta si chiamavano ‘gialli’). I minimi contrattuali sono sempre più minimi (per affrontare la crisi, appunto) e questa società vede ormai convivere genitori con pensioni dignitose e figlie e figli che tornano al nido familiare perché il costo di un affitto è pari alla loro retribuzione. Sono più poveri anche i lavori un tempo considerati pregiati, come ad esempio quello delle assistenti di volo della compagine aeree low cost che, quando scelgono il part-time, hanno uno stipendio base di poco più di 500€ al mese. La povertà del lavoro innesca, paradossalmente, un processo che tende a far aumentare lo stato di povertà, sempre più a danno delle donne, e gli strumenti per fronteggiare il problema sono sempre più deboli e marginalizzati.
Gli organismi che si occupano a livello istituzionale di questi temi, come quello della Consigliera di Parità, una istituzione pubblica, dello Stato, hanno necessità del massimo sostegno da parte delle istituzioni – economico e politico – per poter continuare un prezioso lavoro di affiancamento, studio e tutela concreta delle lavoratrici e dei lavoratori che vi si rivolgono. È possibile, ad esempio, cercare di capire di più del destino delle donne che lasciano il lavoro, e questo si può fare con la collaborazione dell’INPS e dei servizi per il lavoro. Il bonus per le donne che scelgono di stare a casa? Una proposta antistorica.
Serve studiare i casi delle donne che hanno lasciato il lavoro a causa della maternità, in Sardegna e non solo, e serve soprattutto per capire che la proposta, che circola in queste ore e che giunge da alcuni settori della politica regionale (parrebbe una ideazione che trova origine a livello nazionale) relativa alla concessione di un bonus per le donne che scelgono di stare a casa per otto anni a patto di fare figli, non solo è una proposta antistorica ma soprattutto è una proposta antieconomica e inutile. Le donne lasciano il lavoro perché i redditi sono troppo bassi. Non operano questa scelta le donne con lavori stabili e meglio pagati. Tutti gli studi e le analisi sulle società economicamente più evolute dimostrano che più donne al lavoro costruiscono una società più avanzata, più ricca e plurale.
Perché le donne hanno bisogno di servizi, di sussidi per la conciliazione, quelli sì. Pagare le donne per stare a casa a fare figli per otto anni è una proposta indecente, umiliante e tremendamente maschilista, purtroppo. Che nessuna donna che ha investito su di sé in termini di istruzione ed emancipazione sarebbe disposta ad accettare. L’appello è dunque quello dell’ascolto e della disponibilità dei soggetti politici perché si confrontino apertamente con chi si occupa istituzionalmente di queste problematiche, che può fornire indicazioni di metodo, con dati e ampia casistica, per porre in atto misure che mirino alla creazione di lavoro in questa fase storica, perché se paradossalmente le donne prendessero sul serio questa offerta il rischio potrebbe essere quello di impoverirsi ulteriormente e creare eserciti per l’emigrazione, già abbondantemente in atto.
Lavoro e redditi decenti sono le sfide per i prossimi anni. Inventarsi, come il gatto e la volpe, di pagare le donne per fare figli per otto anni e costringerle a casa potrebbe non rivelarsi un vero affare.
Confido sul fatto che le donne non cadranno in questo facile tranello.
Maria Tiziana Putzolu è consigliera regionale di parità della Regione Autonoma della Sardegna