Curare e torturare
19 Agosto 2023[Peppe Dell’Acqua]
La drammatica notizia del 35enne con problemi psichiatrici morto, in un centro in provincia di Chieti, dopo essere stato bloccato con un taser e quindi, secondo le notizie di cronaca che leggiamo, essere stato sedato.
Sarà l’inchiesta aperta con l’ipotesi di omicidio colposo a chiarire i molti dubbi sulla dinamica del tragico episodio. Ma intanto alcune cose riteniamo vadano dette per invitare a un serio momento di riflessione che riteniamo vada fatto.
Della necessità del taser, “arma che non uccide”, ci si affrettò a parlare alcuni anni fa dopo l’uccisione di un ragazzo di vent’anni, di origine ecuadoregna, Jefferson Tomalà, ucciso a Genova con cinque colpi di pistola, nel corso di un presunto TSO. Enfatizzando, come ultimamente troppo spesso si fa, l’aspetto della sicurezza piuttosto che favorire il ragionamento su come meglio aiutare, gestire, controllare anche, una persona in un momento di confusa, disperata agitazione.
Ricordiamo che sulla presunta “non pericolosità” del taser, introdotto come strumento di prevenzione del crimine, serie obiezioni sono state a suo tempo avanzate innanzitutto in campo medico, mentre da tempo Amnesty international denuncia le decine e decine di morti collegate all’uso del taser nei paesi, fra cui gli Stati Uniti, dove è in uso da tempo.
Un’arma “meno che letale”, si insiste, contro i malviventi… ma da subito ci siamo chiesti quante altre persone, agitate, magari sconvolte o persone esasperate (e quante ne incontriamo di questi tempi per strada) con scarsa capacità di autocontrollo, persone che magari con gesti inconsulti temiamo attentino alla nostra tranquillità, corrono il rischio di essere inchiodati allo spasmo di una sorta di elettrochoc. E la vicenda di questi giorni purtroppo conferma questi timori…
Questo strumento non fa altro che confermare una sorta di distanza, come una voragine, che si va creando sempre più fra noi e le persone che vivono un’esperienza di disturbo mentale, per cui qualsiasi strumento diventa lecito dal momento in cui quella persona finisce di essere tale. Tornando indietro di decenni, la persona affetta da disturbo mentale diventa oggetto. Qui si parla di una persona nuda per strada, ma cosa sia successo a lui prima, il suo percorso, il suo dolore, nessuno se lo chiede. Come il suo sconvolgente malstare era stato preso in carico dai servizi di salute mentale che pure ben conoscevano questo giovane uomo.
Noi continuiamo a pensare che questa supremazia della pericolosità e della sicurezza non fanno altro che indurre a cancellare una visione della cura che è quanto di più necessario mettere in campo se si vogliono davvero affrontare il disagio che ci interroga sempre più drammaticamente.
Al primo posto è la persona col suo dolore, e a partire da qui bisogna agire. Noi ci domandiamo quale cultura avessero quegli inconsapevoli agenti di polizia che hanno usato questo strumento di “distanziamento” che è il taser. Come hanno potuto vedere in un uomo che corre nudo e disarmato una minaccia grave per la l’incolumità degli altri. Siamo molto colpiti dal silenzio (ma forse potevamo attendercelo) delle psichiatrie che sempre più tendono a ridurre uomini e donne a oggetto. Psichiatrie che non sono più in grado di scandalizzarsi né di fronte a queste morti, né di fronte alle morti per contenzione o per abbandono, né alla morte per riduzione all’invisibilità del “cronico”, proprio da queste psichiatrie dominanti prodotte.
Noi pensiamo che ripartire con molto rigore da una riflessione intorno alla cura può rappresentare un concreto punto di partenza. La cura, intesa come miglior modo per riconnettere la frammentazione che c’è stata e che porta a episodi come questo da cui parte la nostra riflessione. La cura che, come ha insegnato Basaglia, è quanto di meglio possiamo mettere in campo. Per praticarla abbiamo strumenti efficaci: da una vasta cultura su come affrontare la presenza dolente degli altri, alle tante esperienze fatte che da cinquant’anni a questa pare indicano la strada da seguire.
Condividendo quanto detto da Mauro Palma, garante dei diritti delle persone private della libertà, che “non è accettabile che l’operazione per ricondurre alla calma una persona in evidente stato di agitazione e, quindi, di difficoltà soggettiva, si concluda con la sua morte”.