Curare o punire?

19 Dicembre 2024
Foto di Salvatore Angotzi

[Roberto Loddo]

Pubblichiamo l’intervento di Roberto Loddo al convegno del 12 dicembre 2024 organizzato dallo Cgil di Cagliari, dallo Spi Cgil di Cagliari e dal Coordinamento donne dello Spi Cgil dal titolo Fuori dai manicomi, 46 anni dalla Legge Basaglia.

Dopo 46 anni di Legge Basaglia come si può arrivare alla punizione, alla segregazione, e perfino alla tortura delle persone che vivono l’esperienza della cura nella salute mentale?

Pensiamo alla vicenda del signor Bruno, che come denunciato da Gisella Trincas, presidente dall’Asarp e da Irene Testa, Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà, vive da 16 anni nel Centro AIAS di Cortoghiana in Sardegna, con una maschera da boxer sul viso e le mani legate. Una coercizione continua determinata dal posizionamento di una maschera facciale rigida e dalle mani legate con dei calzini. Durante la notte, in una stanza provvista esclusivamente di un letto e chiusa dall’esterno, gli viene tolta la maschera facciale mentre le mani rimangono legate con dei calzini. Una condizione che contrasta con i principi dei diritti universali della persona umana.

C’è un margine, un confine, che diviene distanza e poi si allarga, sempre di più, tra la società e le persone che vivono l’esperienza della cura nella salute mentale. Questa distanza diventa una voragine quando le persone smettono di essere considerate persone. Questa distanza si allarga quando le persone diventano persone che non funzionano più. Una distanza che trasforma le persone in oggetti quando si passa dal fare qualcosa per colui che è fragile, al metterlo in un posto apposito, custodirlo in un posto apposito.

Questa deriva custodialistica e punitiva, ha avuto una nuova spinta verso la fine del 2000, tra le grandi città dell’Occidente governate dai sindaci più reazionari in cui è iniziato a diffondersi l’approccio alla tolleranza zero. Una dottrina della gestione poliziesca della povertà che crea problemi. Le fasce più deboli e indifese delle periferie devono essere nascoste e contenute perché generano disagio negli spazi pubblici della comunità. Bisogna reprimere tutti coloro che non sono compatibili con il sistema, che disturbano l’ordine pubblico e alimentano il senso di insicurezza. Questa filosofia della repressione urbana, ben descritta da Loïc Wacquant nel suo libro Parola d’ordine tolleranza zero, si è diffusa in tutto il mondo con una velocità impressionante.

È anche da questa vecchia necessità di punire per curare e per garantire la sicurezza che prende vita Il disegno di legge 1179/2024 “Disposizioni in materia di tutela della salute mentale” presentato il 27 giugno dal senatore Zaffini e da altri senatori di Fratelli d’Italia e della maggioranza. Il ddl Zaffini è un progetto che esclude dalle garanzie costituzionali le persone della salute mentale in cura, un processo legislativo in più che rende costituente una società basata sull’esclusione sociale e sulla disuguaglianza, una tragica nostalgia di repressione e manicomio, come denunciato anche dalle organizzazioni promotrici di “Riprendiamoci i diritti”, la seconda conferenza nazionale autogestita per la salute mentale che si è svolta a Roma il 6 e il 7 dicembre 2024.

La situazione che fa da cornice al progetto di Zaffini però non parte da ieri. Ma almeno da vent’anni attraverso scelte politiche contro il nostro Sistema Sanitario Nazionale che hanno compromesso l’efficienza e l’efficacia della garanzia nella tutela della salute e nella dimensione della cura, della prevenzione e della riabilitazione dei servizi di salute mentale territoriali e anche dei sistemi di protezione sociale. La salute mentale è indissolubilmente connessa alle politiche sociali. Il diritto alla casa, il diritto all’abitare, il diritto alla socialità, al lavoro e al reddito sono fondamentali nel garantire una buona presa in carico delle persone dei servizi territoriali. Eppure, nella maggioranza dei servizi di salute mentale non esistono percorsi di cura personalizzati.

Eppure, dagli ultimi dati del 2023 in Italia si contano solo 19 Servizi psichiatrici di diagnosi e di cura in cui non si fa uso della contenzione su 320. Di fatto, nella totalità dei luoghi della cura si preferisce legare ai letti i pazienti in stato d’agitazione. La salute mentale dovrebbe essere intesa e interpretata come un percorso di guarigione e non come un luogo fisico in cui depositare le persone che non funzionano più.

Se oggi siamo riusciti ad aggredire l’indifferenza delle persone, è grazie alla presenza di organizzazioni che non vogliono più essere complici di queste pratiche. Se oggi riusciamo a parlare e a scrivere delle persone legate nei reparti di psichiatria, è grazie ai loro familiari, ad operatori e sindacalisti coraggiosi che hanno rotto il silenzio costruendo una narrazione diversa. Una narrazione diversa da quella che ha consentito che un uomo sano entrasse in ospedale e uscisse morto dopo un trattamento di tortura, come avvenne nel 2006 al signor Giuseppe Casu morto nel reparto di psichiatria di un ospedale di Cagliari. Sedato e immobilizzato, legato mani e piedi nel letto di contenzione per sette giorni. Dall’inchiesta interna della Asl, partita grazie all’Asarp, emersero responsabilità etiche e cliniche gravissime.

A cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, la seconda conferenza autogestita per la salute mentale vuole proporre uno stato di mobilitazione popolare e sociale: “Per affermare il diritto alla tutela della salute mentale e alle cure, per costruire alleanze e strategie di promozione dei diritti, per riportare speranza e garantire pratiche reali di emancipazione“.

Per praticare questo stato di mobilitazione popolare, che generi nella società italiana elementi di rottura e conflitto, elementi di cambiamento e trasformazione, dobbiamo contrastare quella che Peppe Dell’Acqua ha chiamato supremazia della pericolosità e della sicurezza. Una dimensione presente nel senso comune della società e nei nostri servizi di salute mentale. Una dimensione che cancella la visione della cura e trasforma chi vive una condizione di fragilità in una minaccia grave per la l’incolumità degli altri.

Per utilizzare le parole dello psichiatra e scrittore Piero Cipriano, il Csm dovrebbe essere un posto “dove ci si occupa della miseria, dove si procura un vero lavoro e dove si instaurano delle relazioni. Dovrebbe essere uno spazio aperto, un’agorà in cui puoi andare in qualsiasi momento, anche se non sei un paziente”. I centri di salute mentale al contrario sono stati trasformati in ambulatori abitati da farmaci e psichiatri e orientamenti psicopatologgizzanti fatti solo di sintomi e malattie.

E questo è un cattivo modo di intendere la salute mentale di comunità nei servizi di salute mentale. La salute mentale di comunità non si fonda solo sulla presenza dello psichiatra e dell’infermiere, ma sulla sintesi del contributo di diverse figure professionali che lavorano in equipe, e che, mettendo insieme punti di vista, capacità e modalità di lettura, prendono in carico globalmente le persone e migliorando le loro condizioni. Dall’assistente sociale, all’educatore, al tecnico della riabilitazione psichiatrica e allo psicologo.

Servirebbe una rivoluzione basagliana e libertaria che agisca i principi dell’articolo 32 della Costituzione, della Legge di Riforma 833 e della legge 180. Una nuova rivolta antiistituzionale, un grande movimento nonviolento delle persone che vivono esperienze di salute mentale, delle loro famiglie e persone che lavorano nei servizi territoriali. Come facciamo a fare questa rivoluzione?

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI