Da Gaza a Gaza passando per Mont’e Prama

29 Novembre 2024

[Alfonso Stiglitz]

A proposito di un incontro con le studentesse e gli studenti dell’Istituto Tecnico Martini di Monserrato. Il 1954 è stato un anno importante per l’archeologia, non solo perché sono nato io (modestamente) ma, anche e soprattutto, perché viene pubblicato a Oxford un libro che è alla base della nostra disciplina: Archaeology from the earth di Mortimer Wheeler.

Dopo 70 anni, sir Mortimer l’avrebbe riscritto in buona parte, of course, con la consapevolezza e l’esperienza che abbiamo noi oggi, anche grazie a lui. Ma non tutto. C’è, al fondo, la concezione dell’archeologia come scienza e come antropologia il cui fine è lo studio delle società: «archaelogist is digging up, non things, but people», “l’archeologo non scava oggetti, ma comunità”; e, continua, l’archeologia è una scienza che deve essere vissuta e ‘condita’ di umanità.

Questa è la parte del libro che stenta a trovare posto nel modo di essere di molti di noi, fermi al feticcio dell’oggetto, vissuto come una sorta di coperta di Linus che ci mette al riparo dalle intemperie della società. Questo ho raccontato agli studenti del liceo Martini di Monserrato, in un sabato di novembre: il mestiere dell’archeologo e la sua messa in discussione. L’ho fatto raccontando di un oggetto, piccolo e affascinante, che ha avuto un’esperienza migrante lungo il Mediterraneo e ancora naviga nel mare del nostro immaginario.

Un oggetto come ‘pretesto’ per scoprire comunità lontane e vicine, a noi distanti nel tempo e, insieme, a noi contemporanee. Strumento di potere, allora e nostro accusatore, oggi, perché ci limitiamo a esporlo come trofeo in un Museo e ignoriamo, per ignavia o malafede, quello che succede nel suo luogo di origine, quasi non ci interessasse in quanto ‘archeologi degli oggetti’.

È un piccolo oggetto, dicevo, uno scaraboide in steatite invetriata, grande poco più di un’unghia del mio dito, realizzato più di tremila anni fa da qualche parte nella striscia di Gaza, all’epoca provincia egizia, ma culturalmente cananea, zona di passaggio e tensioni.

Un sigillo portato al dito, come anello, da un personaggio che si affidava ai fiori di loto impressi alla sua base per garantirsi un’altra vita e, contemporaneamente, un’identità personale in questa. Ma la vita, come sempre, ha un termine e il nostro oggetto migrante si perde nella nebbia del tempo. Per ricomparire un centinaio d’anni dopo, forse duecento, a Mont’e Prama sui bordi dello stagno di Cabras.

Portato al collo, questa volta, da un maschio ventenne, nel pieno del suo ruolo sociale. Assieme allo scaraboide nella collana era presente un frammento di spada: scaraboide e spada due segni forti di potere. È una ostentazione manifesta da parte di qualcuno che probabilmente doveva dimostrare il proprio valore sociale, in una comunità in forte fermento, nella quale il suo ruolo poteva essere messo in discussione.

È una ostentazione che si nasconde quando viene seppellito per ricomparire, poi, quasi tremila anni dopo, trasformato in reperto archeologico, nel 1979. Studiato, classificato, catalogato è esposto, in modo banale e imbarazzante al Museo di Cagliari, lontano dal suo luogo di ritrovamento, Cabras, e ancor di più dal suo luogo di nascita.

C’è, tra noi, chi pensa che con lo studio e l’esposizione sia terminato il lavoro dell’archeologo, che può vivere tranquillamente nel suo cantiere di scavo o nel suo laboratorio di studio, indifferente al valore attuale di quell’oggetto. Ma lo scaraboide non ci sta. È stato realizzato e ha vissuto la sua prima parte di vita in un luogo che prepotentemente sta entrando nelle nostre case e non in un documentario: il suo luogo di origine è probabilmente Tell al-Ajjul, una collina attualmente alla periferia della città di Gaza. Scavata da Flinders Petrie, un altro padre dell’archeologia, negli anni ‘30 del Novecento, quando ancora si chiamava Palestina. Il sito archeologico, indagato più di recente, ha subito e subisce direttamente e indirettamente le ferite criminali dell’aggressione militare israeliana.

L’occupazione e la guerra portano devastazione, sia per la necessità di abitare e coltivare di più di due milioni di persone rinchiusi in un ghetto angusto di poco più di 300 kmq e ridotta alla fame; e, sia, per la diretta distruzione a seguito dei bombardamenti. L’oscuramento e le restrizioni sulle immagini satellitari da parte delle autorità israeliane e americane rendono difficile valutare l’estensione dei danni. Mentre dell’ultimo anno non si riesce a sapere più niente né dei bombardamenti né dei reiterati passaggi di bulldozer che spianano tutto; l’informazione è impedita, anche violentemente con l’uccisione massiccia dei giornalisti.

Una recentissima pubblicazione, di studiosi di varie università inglesi ma anche di studiosi originari dell’area, mostra una carta archeologica della Striscia nella quale sono individuati 98 siti archeologici, dalla preistoria all’epoca ottomana, dei quali niente si sa cosa ne sia oggi. E non è un caso: la pulizia etnica inizia sempre con la cancellazione o distorsione della memoria o con la sua appropriazione, che prepara il massacro e lo giustifica. Così fu nei Balcani, così è oggi a Gaza, in Cisgiordania e in Libano.

Ogni tanto ritorno al Museo, vicino a casa, a contemplare la vetrina con la collana e lo scaraboide, contento di averlo studiato, arrabbiato per come è esposto, ma in sostanza in pace con me stesso.

Forse.

Guardarlo mette in discussione il mio mestiere: non posso ignorare che l’oggetto del mio studio viva al di fuori del tempo e dello spazio; non viene da un luogo fatato come nelle avventure dell’archeologia raccontate nei libri patinati o nei documentari fighi. Nel suo presente ci racconta, al contrario, una storia di colonialismo e violenza.

Nella Palestina di Petrie, bel ‘900, il luogo di origine del reperto era pur sempre terra di conquista coloniale e la ricerca archeologica la faceva l’archeologo occidentale, britannico nel caso, al seguito degli eserciti. Oggi, gli ‘occidentali’ del governo israeliano la bombardano e gli archeologi stanno alla larga: quelli che c’erano o sono riusciti ad andare via o sono sotto le macerie. Le Università di Gaza sono rase al suolo.

L’archeologia rischia di diventare morta sia per il nostro silenzio di archeologi sia per il silenzio imposto dalle bombe.

Per approfondire

A. Stiglitz 2014, Lo scaraboide della tomba 25.

G. M. Andreou et al. 2024, Establishing a baseline for the study of maritime cultural heritage in the Gaza Strip

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI