Da Presidente della Giunta regionale a Vicerè

16 Aprile 2016
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Marco Ligas

Il nostro Presidente del consiglio recentemente è andato a Parigi per partecipare, insieme a tanti capi di Stato, al vertice sul clima; in quella sede ha sostenuto, possiamo immaginare con quale risolutezza, che il nostro Paese, per quanto riguarda il contenimento delle emissioni inquinanti e la salvaguardia dell’atmosfera, fa la sua parte e già oggi può considerarsi a tutti gli effetti all’avanguardia nelle politiche della tutela dell’ambiente. Ha poi sottolineato come sia indispensabile l’impegno di tutti perché non si disperda nell’atmosfera nuova CO2 e si contenga l’incremento del riscaldamento del pianeta entro i 2 gradi.

Poi, al rientro in Italia, come se niente fosse, ha invitato i cittadini a disertare il referendum sulle trivelle attaccando con veemenza chi si oppone alle sue indicazioni. Anche la magistratura non è stata risparmiata.

Siamo di fronte ad un caso manifesto di schizofrenia? No, piuttosto davanti ad una prassi consolidata dove le relazioni tra gli Stati diventano sempre più evanescenti e formali e i rappresentanti dei governi assumono su scala internazionale impegni che non possono o non intendono rispettare. Questi signori hanno bisogno di conservare il consenso, seppure esiguo, che hanno ricevuto nei loro Paesi e ritengono che sia sufficiente legittimarlo parlando ai loro concittadini di crescita e di riforme che poi regolarmente non fanno; non le fanno perché cresce pericolosamente la loro dipendenza da quelli che ormai conosciamo come i poteri forti (il mercato, la finanza, la concentrazione della proprietà). E questa soggezione lascia ben pochi spazi a ipotesi attendibili di cambiamento.

In queste settimane è stata sufficiente la registrazione di una telefonata inopportuna per avere conferma della collusione del nostro governo con le industrie del petrolio, si chiamino Total o Eni poco importa. Ed è stato subito più comprensibile il perché di tanta ostilità nei confronti del referendum contro le trivelle. È probabile, e noi ce lo auguriamo, che questo incidente di percorso che ha visto come protagonista la ministra Guidi serva a modificare l’esito dello stesso referendum ed eviti così che i nostri territori diventino un deposito di fonti fossili provenienti da altri continenti.

Ma non sarà facile anche perché, in tutti questi anni, l’ambiente, il territorio e gli stessi beni culturali del nostro Paese sono stati considerati da chi ci governa una grande opportunità di speculazione e di arricchimento per le grandi imprese. Questa cultura ha scavato in profondità nel tessuto sociale: tutte le iniziative legate all’uso di questi beni ancora oggi vengono giustificate e presentate come occasioni di sviluppo e di crescita dell’occupazione e accolte come verità inconfutabili.

Ma non c’è niente di più falso in queste affermazioni: i posti di lavoro che verranno a mancare, se vincerà il SI al prossimo referendum, potranno essere recuperati sia da un razionale programma di riconversione dell’energia, sia dal rilancio di nuove attività produttive di cui in Sardegna si avverte la mancanza o l’inadeguatezza. Il riferimento alle attività legate all’agricoltura, alla pesca e al turismo è immediato, così come lo è quello relativo alle politiche da indirizzare al risanamento dei territori fortemente danneggiati dalle attività decennali legate alle lavorazioni dei fossili o alla presenza delle basi militari.

A volte ci chiediamo perché nella nostra società e soprattutto nella nostra isola si consolidino convincimenti e scelte politiche che non risolvono i bisogni di fasce sociali sempre più ampie. Forse non è sbagliato considerare questa asimmetria come un’involuzione della democrazia, un deficit di partecipazione oltre che una crisi profonda dei partiti, compresi quelli della sinistra.

In realtà vediamo come troppi poteri siano concentrati nelle mani di pochi; le attività che prima erano proprie dei partiti oggi sono svolte dalle istituzioni le quali, come sosteneva Enrico Berlinguer, hanno perso progressivamente il ruolo di depositarie dell’interesse generale dello Stato. Le istituzioni sono diventate centri deliberativi sempre più staccati dal paese; per un verso trasmettono alle periferie le loro decisioni secondo un rapporto unidirezionale e per un altro verso fanno proprie le direttive che provengono da chi detiene il potere reale.

In questa situazione diventa difficile cogliere un’autonomia di giudizio in chi amministra le istituzioni periferiche. Non è casuale che sempre più spesso Sindaci o Presidenti di regioni ribadiscano puntualmente (e disciplinatamente) gli orientamenti o le decisioni di chi governa il Paese.

Questi comportamenti mi ricordano “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia e la classificazione degli uomini che fa lo scrittore siciliano. Penso alla critica di Sciascia rivolta a coloro che stentano nel prendere una decisione autonoma, consapevoli che intanto ci sarà sempre qualche altro (gli uomini veri) che prenderanno la decisione al loro posto.

In Sardegna mi pare che troppo spesso si verifichino fenomeni di questa natura. Mi ha colpito per esempio la presa di posizione assunta dal Presidente Pigliaru sul referendum del 17 aprile. Non si discutono i suoi orientamenti personali, ma come può un Presidente della regione fare una scelta che contrasta con quanto proposto dal Consiglio regionale e dal suo Presidente Ganau e considerare tutto ciò del tutto normale? Non sarebbe stato opportuno che il Presidente Pigliaru, vista l’inconciliabilità tra la su posizione e quella del Consiglio si dimettesse?

Ma forse questa prassi stenta ancora a riaffermarsi.

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