Dallo sviluppo alla cura

21 Settembre 2023

[Guido Viale]

L’orizzonte teorico e pratico entro il quale collocare sia le analisi e le prospettive della nostra epoca sia il nostro agire è dato dalla crisi climatica e ambientale. Non la si può eludere né mettere in secondo piano, pena il ritrovarsi a dover fare i conti con contesti che non si padroneggiano più e in cui nemmeno ci si riconosce.

Ci battiamo tutti per obiettivi specifici che attengono alla giustizia sociale (l’eliminazione o la riduzione di tutte le diseguaglianze che minano la dignità dell’essere umano) e a quella ambientale (le condizioni che permettono agli ecosistemi di rigenerarsi), ma dovremmo adoperarci per ricondurli sempre al contesto della crisi generale planetaria. In linea di principio è un’operazione semplice: tutto ciò che accelera o favorisce l’aggravarsi della crisi va respinto, combattuto, cambiato o trasformato: viva i “NO”; i No servono. Tutto ciò che ritarda, ostacola o cerca di invertire gli sviluppi della crisi va promosso e favorito. Naturalmente la pima cosa da evitare e combattere è la guerra tra Stati; ma è un capitolo a parte, e qui non ne parlo.

Le prime e principali vittime della crisi climatica e ambientale sono i poveri e gli esclusi in tutti i paesi del mondo e in tutti gli ambiti, a partire dalle donne, sempre un gradino al di sotto nella gerarchia dell’oppressione: ciò che rende di fatto la rigenerazione della Terra condizione ineludibile del loro riscatto, di una maggiore giustizia sociale. E viceversa: sono loro che hanno un interesse prioritario a invertire rotta: papa Francesco, nell’enciclica Laudato sì, lo mette in evidenza fin dai primi paragrafi.

Ciò richiede un vaglio delle analisi, dei programmi e degli obiettivi che non viene mai fatto, o viene messo in subordine ad altre priorità; che certo premono, ma che rischiano sempre di venir soffocate, prima o dopo, dagli sviluppi della crisi: una alluvione che distrugge un intero paese, una siccità che lo desertifica, una crisi settoriale – per esempio dell’agricoltura o del turismo – che ne vanifica le prospettive occupazionali, una migrazione che non era stata messa in conto, ecc.

Per questo “fare politica oggi” richiede una continua opera di traduzione delle misure per far fronte alla crisi climatica e ambientale in termini che rispondano ai bisogni concreti delle persone e della loro condizione; e viceversa, una traduzione del vasto arco di obiettivi tesi alla trasformazione della società in pratiche che concorrano a far fronte tanto alle cause che alle conseguenze della crisi climatica e ambientale.

Quest’opera di traduzione è l’unica cultura all’altezza dei tempi: una cultura che richiede un profondo ripensamento del rapporto che lega gli esseri umani al resto della vita sulla Terra: premessa ineludibile per l’uscita dall’antropocene, che certo è “capitalocene”, ma che è anche molto, di più. Il che richiede più e non meno “radicalità” di quella che aveva caratterizzato anche le più impegnative e creative prassi dei decenni e dei secoli scorsi.

La crisi climatica, ambientale e sociale è destinata ad aggravarsi. Le emissioni climalteranti non si fermano e la Terra continuerà a riscaldarsi per anni. Gli eventi estremi a moltiplicarsi e cambierà anche la nostra vita quotidiana, volenti o nolenti.

Le comunità, grandi o piccole, che sapranno attrezzarsi per adattarsi a condizioni sempre più ostiche – con un sistema di vita più sobrio, ma anche più ricco di relazioni e di esperienze – potranno fare da apripista a quelle che, bene o male, dovranno seguirle; pena la loro scomparsa. La traduzione di queste esperienze in programmi più generali, di respiro regionale, nazionale o sovranazionale, potrà avvenire solo sotto la pressione delle comunità che avranno già imboccato quella strada.

Tutto ciò mette all’ordine del giorno non solo le misure di mitigazione volte a ridurre e arrestare le cause della crisi, ma soprattutto quelle tese all’adattamento alle condizioni sempre più difficili in cui si svolgerà la vita quotidiana: soprattutto quella delle persone più fragili, delle classi sociali più sfruttate, delle comunità più esposte al degrado, delle categorie più oppresse. Non saranno i governi a prendersene cura; e meno che mai le imprese. A prendersene cura dovranno essere le tante e diverse iniziative di movimenti che nascono dal basso e che già oggi vediamo all’opera.

La transizione non potrà essere, quindi, un processo unitario e programmato, ma solo uno sviluppo “a macchia di leopardo”, dove le esperienze degli uni faranno da guida a quelle degli altri. Il criterio guida delle iniziative da prendere sarà la loro replicabilità, in contesti ovviamente differenti. Quelle replicabili ovunque vanno nella direzione giusta: la diffusione planetaria della resilienza di fronte alla crisi; quelle praticabili solo a condizione di escluderne gli altri, o addirittura a spese di altri, portano al vicolo cieco di una comunità chiusa, che non sarà mai sostenibile e autosufficiente.

Questo vale soprattutto in relazione a quella che finora si presenta come la più importante conseguenza, ancorché indiretta, della crisi climatica: l’aumento delle migrazioni: destinate a crescere in modo esponenziale e a non fermarsi, rendendo evidente tutta l’inadeguatezza del modo di affrontarli – a destra come a sinistra – come emergenza estemporanea. Solo la creazione di comunità fondate sulla condivisione si può affrontare con un’accoglienza diffusa e non con una contrapposizione destinata a sfociare in sterminio, un processo che coinvolgerà milioni, se non miliardi, di esseri umani nel giro di pochi decenni.

La costituzione di comunità aperte di mutuo appoggio nascerà dalle lotte, come già sta facendo, ma non prefigura necessariamente una società del futuro, “il sol dell’avvenire”, la cui definizione – se mai ne esisterà una – è e resterà nelle mani dei protagonisti di questi processi. Ma alcune cose emergono comunque dalla prospettazione di questa trasformazione: la prima è la valorizzazione e la priorità della cura, dei lavori di cura, delle attività legate alla riproduzione: non solo quella biologica e materiale, ma anche e soprattutto quella sociale – cioè la creazione, il mantenimento e il potenziamento dei legami che tengono unita una comunità: un’attività in cui, anche qui, come in tutto ciò che viene tradizionalmente classificato come “lavoro riproduttivo”, prevale il ruolo delle donne – rispetto al lavoro cosiddetto produttivo di merci, di valore di scambio, di profitto; lavoro non necessariamente condannato alla scomparsa, ma sicuramente destinato a un ruolo subordinato rispetto alla priorità della cura.

Ciò mette in discussione l’obiettivo della “crescita”: crescita della produzione di valore, di PIL, che è il termine con cui oggi viene indicata quella che Marx chiamava accumulazione del capitale (Un utile esercizio è sostituire l’espressione “accumulazione del capitale” al termine crescita tutte le volte che questa viene nominata: anche, spesso inconsapevolmente, da molti di noi che pure l’avversano. Salterebbe agli occhi non solo il lato grottesco del destino a cui ci siamo autocondannati, ma anche la profondità con cui lo “spirito del capitalismo”, che è accumulazione, è penetrato fin dentro il nostro inconscio).

All’abbandono dell’obiettivo – o, meglio, dell’orizzonte – della crescita è legato quello dello “sviluppo” – spesso accompagnato dalle “ineludibili” qualifiche di “umano”, “sostenibile”, “ecologico”, ecc. Che ne sono il volto presentabile, ma che non lo disgiungono mai dalla crescita, che ne è la condizione irrinunciabile. Ma viene meno anche ogni riferimento al “progresso” (e del suo derivato “progressista”, usato per lo più a sproposito: alla buonora, duecento anni dopo Leopardi!). Sono termini legati alla concezione di uno sviluppo lineare del processo storico che pone una civiltà, una cultura, una organizzazione sociale (di fatto, quella capitalistica e occidentale) al di sopra di quelle che l’avrebbero preceduta, e che a volte sono sopravvissute al tentativo di estinguerle, dimostrando la loro vitalità e la loro resilienza,.

Certamente termini come crescita, sviluppo e progresso mantengono un valore positivo quando sono riferiti a singole persone o a contesti determinati. Ma questa accezione viene usata troppo spesso per mascherare la sostanza di ciò che è invece il meccanismo di fondo che regola il funzionamento del capitalismo. Il progresso, quando c’è, riguarda il miglioramento di una vita, di una generazione, di un assetto sociale, di un contesto ambientale; fino a che il cambiamento delle condizioni date non impone il perseguimento di nuovi e diversi obiettivi: in un processo ciclico che si rinnova a ogni generazione, quale che sia stato l’esito del ciclo precedente.

La cura del prossimo, della comunità, degli umani, ma anche della vita della Terra in tutte le sue manifestazioni, comporta il superamento della contrapposizione, propria della modernità, tra uomo e ambiente, cultura e natura, spirito e materia, soggetto e oggetto. Un superamento che è l’unico modo ancora praticabile per affrontare una crisi di cui già oggi possiamo vedere le manifestazioni più minacciose; ma che sono ancora niente di fronte a quelle che attendono al varco le prossime generazioni. Sì, quelle di cui avrebbe dovuto farsi carico lo “Sviluppo sostenibile”.

Stralcio della relazione di Guido Viale al convegno Il collasso della Biosfera e i compiti della politica, Roma, 20 Settembre 2023

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