Della Rovere da cialtrone a eroe
1 Maggio 2009Sante Maurizi
«Questo breve racconto non pretende di essere assolutamente vero, sebbene abbia per protagonista un personaggio realmente esistito: il pregiudicato Giovanni Bertone, da me conosciuto nel carcere di San Vittore nel 1944 come generale Fortebraccio Della Rovere, fucilato a Fossoli insieme a sessantasette detenuti il 12 dicembre di quell’anno».
E’ l’avvertenza con la quale Indro Montanelli, del quale ricorreva il 22 aprile scorso il centenario della nascita, introduce «Il generale Della Rovere», racconto tratto dalla sceneggiatura scritta con Sergio Amidei e Diego Fabbri per l’omonimo film diretto da Roberto Rossellini giusto cinquant’anni fa. Millantando contatti con il comando tedesco, un truffatore che ha sempre vissuto di espedienti estorce denaro ai parenti dei detenuti politici. Denunciato, viene convinto da un ufficiale della Gestapo a fingere di essere il generale badogliano Della Rovere per ottenere dai prigionieri fiducia e informazioni. La vita in carcere, accanto a uomini di valore e a casi pietosi, porta l’uomo a condividere gli ideali e la sorte dei compagni fino alla fucilazione. A cinquant’anni Montanelli, firma di punta del «Corriere della Sera», è il giornalista italiano più affermato. Da qualche anno pubblica la sua «Storia d’Italia», immediato best-seller, e non è nuovo a incursioni nella scrittura cinematografica e teatrale. Subito dopo la fine della guerra ha scritto due film per la regia di Giorgio Ferroni, «Pian delle Stelle» e «Tombolo», con tutto il campionario resistenziale e neorealista di brigate partigiane, spie, ragazze sfruttate e piccoli eroi nei miserabili traffici della ricostruzione. Il teatro è passione antica e costante: dall’«Idolo» del 1937 e per un trentennio una decina di suoi copioni diventano spettacoli di successo, sempre legati all’attualità politico-sociale. Come quel «I sogni muoiono all’alba» (diverrà anche un film, co-diretto dallo stesso giornalista nel 1961) che narra di cinque inviati di giornali italiani sorpresi a Budapest dalla repressione sovietica del novembre 1956. Giornate che Montanelli ha vissuto per davvero, con epiche corrispondenze dalla capitale ungherese. La storia di Giovanni Bertone non può non interessare Rossellini, al di là della opportunità di risollevarsi con un film ‘vero’ da un declino anche economico lungo un decennio. Come dichiarò una volta François Truffaut, «Roberto mi ha insegnato che il soggetto di un film è più importante dell’originalità dei titoli di testa». Il soggetto del «Generale» è potente e delinea un personaggio irresistibile, interpretato da un immenso Vittorio De Sica: il cialtrone che diventa eroe suo malgrado. Tratto peculiare, nell’immaginario planetario, del carattere degli italiani, e tema ricorrente nel nostro cinema, la cui summa sta forse nel Sordi-Innocenzi di «Tutti a casa» di Comencini. è singolarmente la stessa materia della «Grande guerra» di Monicelli, che vince il Leone d’Oro al festival di Venezia del 1959 ex-aequo con il film di Rossellini. Due pellicole con le quali per Lino Miccichè «cessa quello che era stato l’embargo sulla storia recente nel cinema italiano». Il fatto è che alla fine degli anni ’50 i figli, anche se timidamente, iniziano a fare le pulci alla storia dei padri, e si inizia a respirare un’aria che porterà al primo centro-sinistra. Il «Generale» origina un filone di film resistenziali e risolve per Gianni Rondolino «sul piano dei sentimenti i problemi irrisolti sul piano delle idee». La pellicola suscita consensi ma anche violente polemiche. In diverse sale viene accolto da gruppi di destra con uova marce e fiale puzzolenti, mentre a sinistra si indica nella pellicola «l’archetipo di quello spirito assolutorio verso l’italiano medio, fascista malgrè lui o agnostico perché tiene famiglia» (ancora Miccichè) che manzonianamente si converte e vive un giorno da leone. La vicenda della ricezione del film riflette in fondo il destino di bastian contrario di Montanelli, inviso in egual modo a destra e a sinistra, capace di sbalordire nell’avventura professionale come in quella umana (è difficile rimuovere l’ostinata negazione delle efferatezze del colonialismo italiano, o l’articolo su Civiltà Fascista del gennaio 1936: «Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà»). Polemiche che hanno accompagnato perfino la storia editoriale del «Generale». Amidei e Fabbri, due artisti del mestiere, fecero dell’episodio vissuto da Montanelli un plot a orologeria (Pasolini imputava paradossalmente a ciò, a una storia «scritta un po’ troppo bene», alcuni dei difetti del film). C’era allora un pubblico di lettori per le ‘sceneggiature desunte’: tratte cioè dal film montato, spesso sensibilmente diverso dal copione originale. Montanelli intuì quella che oggi è la regola: il ‘racconto desunto’, un instant-book che traspone la pellicola in forma narrativa. Lo scritto introduttivo, nel quale Montanelli riconosceva i meriti dei due sceneggiatori, scomparve dalle edizioni straniere. Suggellò il tutto la testimonianza di Sergio Amidei, raccolta da Goffredo Fofi: «Mi pareva strano che una persona come Montanelli avesse questa libidine di poter scrivere un romanzo, ma forse ce l’aveva proprio perché non è capace. Allora mi sono limitato a non incontrarlo». Umana debolezza dell’anarco-conservatore Montanelli: così si auto-definiva, come i suoi maestri e sodali Longanesi e Prezzolini.