Democrazia, civiltà possibile e nuove disuguaglianze in Europa
1 Luglio 2016Gian Nicola Marras
I macroprocessi di mutamento globali implicano rapidissimi mutamenti nella sfera dei dei diritti e della politica. Per giunta la politica dei partiti tradizionali deve interfacciarsi con la crisi della partecipazione politica dimostrata dalla crescita dell’andamento astensionistico, riscontrabile dalle più recenti consultazioni amministrative italiane di giugno 2016. Fenomeni direttamente collegati allo sgretolamento senza precedenti delle cornici istituzionali della modernità nei paesi occidentali a capitalismo avanzato e in recessione economica, ma soprattutto in crisi di valori civili.
I poteri pubblici e le nuove strategie comunicative di massa, influenzati dagli interessi delle élite economiche transnazionali, hanno progettato uno scenario di conformismo e individualismo generalizzato al fine di declassare tutti quegli ambiti di vita sociale fondati sul dibattito e sul confronto ideologico. Per queste ragioni oggi è sempre più difficile trovare le connessioni esistenti tra le questioni private e le questioni pubbliche. E quindi sempre più difficile formulare le domande e le riflessioni più appropriate, che molto spesso sono anche quelle più scomode. L’ambito di operatività della politica nella società del secondo Novecento, era direttamente connesso con questioni specifiche dell’esistenza quotidiana dei cittadini, come l’assistenza ai malati, agli invalidi, ai lavoratori, ai disoccupati nell’ottica dell’estensione dello Stato del Welfare e dell’idea keynesiana di “civiltà possibile”.
Tra i tanti spazi deterritorializzati, l’agorà è il luogo denaturalizzato per eccellenza nel contesto tardo moderno. L’egemonia neoliberista nei media compie un’operazione di manipolazione dell’opinione pubblica, aiutando a distogliere lo sguardo collettivo dai gravi danni generati dall’economia speculativa neoliberista su scala globale.
Di fronte all’aumentare dei sentimenti di disagio sociale nei confronti della globalizzazione neoliberista, i meccanismi legislativi transnazionali legati alle reti di dipendenza globale, accentuano l’erosione di sovranità degli Stati-nazione in deficit economico.
La crisi della democrazia è dovuta principalmente all’autoreferenzialità delle grandi organizzazioni, delle oligarchie e dei gruppi di pressione che ovviamente prediligono il perseguimento e la difesa dei grandi interessi finanziari, piuttosto che interpretare positivamente il mutamento di civiltà nell’età della globalizzazione declinandolo in una battaglia evolutiva per l’affermazione di idee civiche inclusive e tolleranti.
L’isomorfismo economico su scala internazionale sta alla base dei meccanismi di produzione e riproduzione delle diseguaglianze sociali. La scelta della strategia dello struzzo fatta propria dai gruppi politici locali (nazionali) favorisce lo slancio di pericolose prospettive politiche xenofobe incitanti l’odio razziale.
Nel dibattito pubblico in Europa, accanto alla tradizionale retorica politica fondata sull’inclusione e sul mélanges culturale, riprendono vigore le proposte di chi suggerisce la costruzione di muri divisori tra nazioni. Barriere felicemente abbandonate con l’istituzione dell’area di libera circolazione delle persone decisa con gli Accordo di Schengen, firmato il 14 luglio 1985, inizialmente firmato solo da cinque Stati membri della CEE: Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo ed Olanda, e in seguito sottoscritto da numerosi altri paesi dell’Unione. L’Italia fece il suo ingresso nel sistema di Schengen il 26 ottobre 1997.
Il muro come concetto, prima ancora che barriera divisoria è il simbolo della paura del diverso. La globalizzazione porta di per sé contatto e interdipendenza. I populismi politici accrescono i loro consensi di pari passo con la crescita dei flussi migratori.
I nuovi poteri extrapolitici ed extraterritoriali legati ai poteri finanziari e al commercio, sfruttando la loro egemonia sul sistema dei media stabiliscono le regole del gioco. Una retorica unidirezionale Ossia le regole che dicono all’individuo atomizzato della società tardo moderna, su quale base dovrebbe essere espressa la preferenza per un’alternativa di società piuttosto che un’altra.
L’evanescente sogno di una globalizzazione dal volto umano pare essere un’utopia oramai datata. Quanto al Vecchio Continente, l’entusiasmo ideologico-politico europeista non si è tradotto in Europa federale che combatte per appianare le disuguaglianze e operare a vantaggio del benessere generale. Dopo il 23 giugno 2016, giorno delle consultazioni referendarie svoltesi nel Regno Unito sulla cosiddetta “Brexit”, l’esito referendario favorevole al “leave”, abbandonare l’UE, potrebbe trasformare, o forse ha già trasformato il processo di unificazione europea in un processo di disgregazione europea.
Le élites del potere, certo non possono trascurare il fatto che sempre più consistenti porzioni di opinione pubblica nel Vecchio Continente, vedono nel processo di unificazione europea, un singolare modello di governance orientato più verso la difesa degli interessi finanziari delle grandi holding e dei grandi sistemi bancari, piuttosto che un processo legislativo atto ad integrare gli esclusi dal mercato del lavoro, migliorare le condizioni di vita, garantire protezione sociale per i cittadini, come peraltro previsto dal protocollo sulla politica sociale del Trattato di Maastricht, trattato istitutivo dell’Unione Europea, siglato il 7 febbraio 1992, che ha risucchiato e avviluppato in un vortice anche il nobile principio umanistico, prima ancora che politico, di integrazione comunitaria, ovvero la libera circolazione delle persone, sancita a Schengen nel 1985.
Sulle criticità e l’utopistica visione di un’Europa della moneta unica orientata univocamente sulla pace sociale e della prosperità economica, è interessante ricordare l’opinione del capo consigliere economico per la Casa Bianca durante la presidenza Reagan, Martin Feldstein. Egli sostenne che la moneta unica e le rigidità del patto di stabilità (meglio conosciuto con l’anglicismo: Fiscal Compact) sarebbero stati incompatibili con le diversità strutturali delle economie europee.
In caso di crisi e shock monetari, esse avrebbero prodotto tensioni fra le economie dei paesi membri dell’Unione. Tensioni di natura politico-economica che avrebbero colpito le regioni più povere, ed evidenziato il ruolo del paese più forte.1 Come più tardi è stato ammesso, dallo stesso Giuliano Amato, interprete di delicate fasi dell’unificazione giuridico-economica dell’Unione Europea, il progetto stesso è fallito.2
La sordità politica della tecnocrazia europea, era legata alla concezione di perseguire la creazione di un sistema monetario europeo, la costituzione di mercato finanziario unico, con un tasso di cambio rigido per la libera circolazione dei capitali, mentre il tasso di cambio reale, quello percepito dalle persone che vivono nello spazio economico, rimaneva legato agli andamenti dell’inflazione, quindi in balia delle oscillazioni legate agli squilibri e alle ovvie diversità tra le economie dei paesi dell’UE.
Per gli Stati-nazione membri dell’UE, non era più possibile attuare le politiche monetarie espansive, che invece Keynes a Bretton Woods, aveva sottolineato essere fondamentali per garantire l’obiettivo della piena occupazione nel Continente e standard di vita più elevati.
Invece negli ultimi anni abbiamo visto come l’abbassamento del tasso d’inflazione portò come conseguenza immediata, il crollo dei tassi d’interesse sui titoli di stato, in base alle valutazioni delle agenzie di rating.
I Governi, ora sprovvisti della capacità di gestire in autonomia le politiche monetarie tramite le Banche centrali nazionali, decisero di reagire ai tassi d’interesse più bassi richiedendo nuovi prestiti all’FMI per finanziare l’erogazione dei loro programmi sociali.
Non sono certo mancate visioni critiche verso l’isomorfismo economico neoliberista, e come esse fossero supportate da elementi facilmente riscontrabili negli erronei modelli seguiti nei processi legislativi dell’UE. Le nefaste conseguenze delle sconsiderate scelte in materia politico-monetaria non tardarono nel manifestarsi. La drammatica attualità e correttezza di queste critiche si registrò negli eventi politici che infiammarono la scena politica greca dal 2010 al 2015. Il protrarsi della crisi umanitaria che ha investito l’Eurozona mediterranea, ha colpito con particolare violenza il paese meno prospero, la Grecia.
Il cosiddetto programma di Salonicco, l’agenda politica progressista con il quale il partito Syriza vinse le elezioni nel gennaio 2015, era centrato principalmente su rivendicazioni di diritti di base: fine delle politiche di austerità e riduzione del debito estero. Il partito al governo riuscì a vincere il referendum popolare nazionale del luglio 2015, sul “no”, l’opposizione alle politiche di austerità.
L’esito democratico favorevole al “no”, per quanto velleitario -poiché il quesito venne posto solo a livello nazionale e non internazionale- è stato annullato dalla ferrea opposizione esercitata dalle élites finanziarie globali.
L’annullamento di fatto del referendum popolare del luglio 2015, ha aggravato il peraltro già lapalissiano snaturamento semantico dei concetti di democrazia e rappresentanza politica su scala continentale. Ma cosa ancor più grave modo è venuta meno la solidarietà umana tra i paesi membri.3
A subire le conseguenze della conservazione dei privilegi dei pochi, sono i cittadini, le famiglie, i sistemi scolastici, le scuole e le chiese. I simboli, le idee e i messaggi di questi Istituti politici minori vengono impiegati per legittimare le decisioni dei grandi gruppi economici e militari.
La cornice reale nel quale si sono manifestati questi eventi è quella di un paese e una comunità umana, malcapitata vittima di una turbolenza finanziaria prodottasi a migliaia di chilometri di distanza, in un altro Continente, ma che ricade sulle spalle delle persone comuni dell’Europa meridionale e delle altre periferie dell’Eurozona.
Le drammatiche conseguenze del fallimento dei programmi macroeconomici neoliberali hanno colpito fasce crescenti della popolazione in modo molto serio. La crescita della disuguaglianza globale ha raggiunto proporzioni esorbitanti.
Il progressivo prosciugamento delle agorà, spazi pubblici di confronto nelle società democratiche è funzionale alla conservazione dello status quo, lasciando intaccati gli interessi delle élites del potere. La democrazia possibile keynesiana consisteva nell’intreccio tra un estensione di pratiche democratiche nella società, il contenimento degli interessi delle grandi lobbies, e la creazione di regole e meccanismi di controllo finanziario in grado di favorire la redistribuzione della ricchezza.
Le élites del potere transnazionale rispondono a ben altre logiche di dominio, poco si interessano alla programmazione democrazia e a garantire il rispetto dei diritti delle comunità.
La vittoria del potere invisibile, quello delle élites finanziarie, su quello visibile dell’agorà, uno spazio sociale originariamente concepito come votato all’incontro e al confronto tra la sfera privata e la sfera pubblica, luogo all’interno del quale il dialogo fra le differenze da origine alle decisioni e cementa le coscienze individuali in strategie di azione collettiva, mappe ragionate delle questioni sociali più incalzanti. Un luogo che si fa progressivamente più evanescente e prospero di assordante silenzio, per via della “mancanza di partecipazione democratica”.4
1 Feldstein, Martin. 2010. “Let Greece take a Eurozone ‘holiday’.” Financial Times. February 16th. “The European economic and monetary union is doubly flawed. First, it forces diverse countries to live with a single interest rate and exchange rate that cannot be appropriate for all members. Second, combining a single currency with independent national budget policies encourages fiscal profligacy. The Greek situation is a manifestation of these flaws. If European political leaders nevertheless want to preserve the current system, allowing a temporary exchange rate reset for Greece may be the best option”.
2 Amato Giuliano, Fabrizio Forquet, Lezioni dalla crisi, Laterza, Roma-Bari, 2013. O anche al link https://www.youtube.com/watch?v=2culAA6_wwY
3 La rivista medica americana The Lancet pubblicò nel febbraio 2014 uno studio condotto dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra, intitolato “Greece’s health crisis: from austerity to denialism”, ovvero “la crisi del sistema sanitario greco, dall’austerità al negazionismo”. Dalla lettura dei dati presentati nel report emerse una situazione drammatica: incremento dei casi di malnutrizione, la riduzione dei redditi di base, l’incremento della disoccupazione, la scarsità di medicine negli ospedali, più in generale un accesso sempre più arduo ai servizi sanitari. Con i tagli all’assistenza sanitaria, è venuta meno l’assistenza alle madri prima del parto, e le morti dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. E’ cresciuto del 20% il numero dei bambini nati morti e del 19% il numero dei bambini nati sottopeso. Si estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è stata bloccata. Malattie come la Tbc e la malaria, assenti da oltre 40 anni fanno la loro ricomparsa.
La rivista medica, accusando governi e le autorità politiche e il governo centrale europeo, elogia l’operato di paesi come Islanda e Finlandia, che invece respinsero con convinzione i diktat dell’FMI e dell’UE. Per un più recente aggiornamento sui dati della crisi del settore sanitario in Grecia consiglio questa traduzione del report della Banca di Grecia http://www.eunews.it/2016/06/24/lausterita-uccide-lallarma-della-banca-di-grecia-sistema-sanitario-al-collasso/62502
4 Gallino Luciano, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari, 2003, p.127-128.