Democrazia e Partecipazione
1 Aprile 2009
Annamaria Loche
Il collegamento tra democrazia e partecipazione è un motivo classico del pensiero politico: sappiamo tutti che quando la democrazia nasce nelle poleis greche essa si fonda sulla partecipazione del demos, del popolo alle assemblee deliberative che si tenevano nell’agorà; sappiamo anche che uno dei motivi per cui non si parlò più di democrazia per molti dei secoli successivi fu proprio l’impossibilità che la partecipazione si realizzasse in entità politiche che erano ormai ben vaste delle città-Stato greche. Si ricomincia a parlare di democrazia ai primi del XIX secolo, con l’esperienza storica della democrazia rappresentativa degli Usa; nello stesso periodo, inizia a porsi come realtà concreta in Europa l’esperienza degli Stati liberali: uno dei caratteri di fondo del liberalismo sta proprio nell’accantonamento della dimensione della partecipazione. In un famoso discorso del 1818 Benjamin Constant distingue proprio da questa prospettiva la “libertà degli antichi” (basata sulla partecipazione dei liberi – che in una società schiavistica non hanno bisogno di lavorare – alla deliberazione legislativa) dalla “libertà dei moderni” (i quali si realizzano nel lavoro e, per quanto riguarda la partecipazione politica, si fanno rappresentare dai deputati nei Parlamenti, limitandosi a votarli). Tuttavia, all’inizio del XX secolo e soprattutto dal secondo dopoguerra e per alcuni decenni successivi, un riequilibrio del rapporto tra liberalismo e democrazia, che assegna a quest’ultima a livello sociale una rilevanza sempre maggiore, rimette al centro il problema della partecipazione, intesa però ora in un altro significato, che va gradualmente oltre quello originario. Se vogliamo utilizzare l’esempio dell’Italia come realtà a noi più nota, ci sono stati degli anni in cui partecipazione ha assunto un significato molto vasto, implicando una presenza del sociale e dell’economico in una sfera della politica che non era solo, semplicemente e forse neppure soprattutto la sfera “tecnica” della deliberazione legislativa vera e propria. Si può dire che in quel periodo, che ha forse le sue prime radici nell’esperienza della resistenza al fascismo, si crea una nuova agorà: non si tratta più ovviamente di essere concretamente presenti nel momento legislativo, ma si tratta di essere parte attiva di un dibattito politico, sociale, culturale che permette a diversi strati della popolazione (diversi per estrazione economica, sociale, culturale, generazionale), per un verso, di far sentire le proprie esigenze e di esprimere le proprie idee; per un altro, per un altro di essere parte attiva di un concetto di “comunità politica” fortemente “democratico”, che, pur minoritario dal punto di vista numerico in un paese come il nostro, non lo era dal punto di vista dell’influenza e della capacità aggregativa. È inutile nascondere che il senso della cosa pubblica, il senso democratico dello Stato come comunità non è mai stato molto vivo da noi; ciò non toglie che una certa generazione abbia vissuto la dimensione del “politico” proprio come quella in cui sviluppare le questioni connesse alla giustizia sociale ed economica, all’equità, alla cooperazione solidale, alla luce della consapevolezza dell’importanza del “fare”, dell’agire per uscire da un troppo asfittico individualismo. Non sono in grado di giudicare se la stagione – peraltro variegata – di questa esperienza sia stata troppo breve; la speranza era che lasciasse un segno, che costituisse un progetto per le generazione future, in modo che concepissero la politica come parte di sé, come elemento ineliminabile del vivere insieme. Invece, mi sembra di poter dire con certezza che negli ultimi quindici anni si è verificato un processo per cui quella grossa minoranza numerica che però aveva una decisa egemonia culturale democratica, pur nella sua notevole varietà di posizioni, è finita nell’angolo, è numericamente scemata, ha perso influenza e capacità di mobilitare: si è in altri termini spento quasi del tutto il desiderio, la voglia, la possibilità (a seconda dei casi e dei contesti) di “partecipare” alla cosa pubblica e a tutto ciò che essa comporta. Da qualche tempo nutro la convinzione (che poi ho visto altri molto più illustri di me condividono, mentre ci sono coloro che la considerano pericolosamente di parte, o forse persino manichea) che questa situazione, questa perdita del senso e dell’importanza della partecipazione sia il frutto di una sorta di mutazione “antropologica” (ovviamente da intendersi non in senso radicale): è cambiata la “cultura” cui la maggior parte di noi è disposta a rivolgersi e sono cambiati profondamente i valori. Il senso della comunità e della democrazia non sono più tra questi e non sono più tra questi perché ha perso di significato essere parte attiva della comunità, partecipare, partecipare consapevolmente, appunto. Ciò che riguarda il vivere insieme appare privo di rilievo, è cosa demandata ad altri, domina un ottuso e sfrenato individualismo legato al qui ed ora, dove neppure la preoccupazione non dico per le generazioni future, ma per “la” generazione futura, quella dei nostri figli, dei nostri nipoti, pare avere importanza. La partecipazione consapevole al politico è stata sostituita dal mito e dalla religione del numero, come se la democrazia si risolvesse nella semplice quantità. In questo modo, al concetto democratico di “popolo” si sotituisce quello molto più ambiguo di “massa”, cioè di un’entità politico-sociale sostanzialmente priva di identità, che non è soggetto autonomo ed è, nello stesso tempo, passiva e manovrabile, legata solo a una asfittica, vuota e rituale partecipazione al voto. Parallelamente, sembra che l’approvazione basata su un acritico consensum gentium, che già la filosofia moderna aveva dimostrato inaccettabile e privo di fondamento, sia l’unico parametro con il quale giudicare la bontà se non addirittura la legittimità di un provvedimento politico. Un popolo, in cui si è verificata la “mutazione antropologica” (o se volgiamo essere più blandi possiamo chiamarla “culturale”, “valoriale”) cui accennavo, che non ha alcun senso della cosa pubblica, che non ha alcuna voglia di andare la di là di un’informazione mistificata e mistificante (o anzi mostra spesso fastidio quando si introduca nella discussione pubblica qualcosa che inviti alla riflessione critica), che ha rinunciato a partecipare, ha passivamente accettato l’equazione tra democrazia e numero. Se è vero che non si deve mai rinunciare a controllare gli “esperti”, è anche vero che la democrazia non è solo questo: se una massa inconsapevole e mal informata decidesse, per assurdo, di dare la propria approvazione incondizionata ed entusiastica ad una legge che istituisce la schiavitù o, se vogliamo leggere lo stesso problema da un altro punto di vista, se un uomo politico che propone una legge che istituisce la schiavitù ritiene/afferma di essere nel giusto perché la gran parte dei cittadini è d’accordo con lui, ciò nondimeno quella legge non sarebbe democratica. Se una legge propone di edificare case senza controlli, di costruire centrali nucleari, o quant’altro e chi la propone la propaganda come giusta, legittima ed equa perché la gente la vuole, senza tener in minimo conto i pareri di esperti e il dibattito pubblico, è difficile che quella legge possa essere davvero giusta, legittima ed equa. La vox populi e la vox dei (o del capo/capi politici) non possono costituire un parametro di giudizio per la democrazia e soprattutto non l’unico parametro, perché sono voces che esprimono pareri dove la consapevolezza del popolo di far parte di una comunità non ha più luogo. In una società in cui la democrazia ha cessato di avere rapporti con la partecipazione consapevole, dunque, la democrazia ha cessato o rischia in breve di cessare di essere democrazia.
4 Aprile 2009 alle 09:07
Ho letteralmente divorato l’articolo. Ho avuto la fortuna di seguire le lezioni di Anna Maria Loche quando studiavo Filosofia all’Università di Cagliari. Erano gli Settanta. Oggi ritrovo la stessa rigorosità, la stessa passione e, cosa molto rara, la chiarezza che si accompagna ad una rara efficacia linguistica. I suoi allievi sono molto fortunati. E anche i miei visti i suggerimenti preziosi che posso trarre dalla lettura dei suoi articoli. Buon lavoro.
5 Aprile 2009 alle 17:39
Leggo in questi giorni l’ultimo libro di G. Zagrebelsky in cui, di fatto, sotto altre categorie, viene trattato anche questo tema.
In esso é citato un brano in cui Alcibiade immagina un dialogo con Pericle. In esso, in sintesi, appare una contrapposizione fra Legge, concepita in prima battuta da Pericle (all’epoca) come la forza della maggioranza dei deboli v/s la minoranza dei ricchi e nobili, e Legge, concepita da Alcibiade secondo una prospettiva di implementazione di forme di “necessaria persuasione”, delle proprie ragioni, da parte della maggioranza a favore della minoranza contraria che, infine, accetterebbe la decisione (nomos) perché cosciente che l’ordine all’interno dello Stato passa anche per i compromessi e qualche volta l’accettazione degli interessi altrui.
Se viene meno questo processo di persuasione dall’alto verso il basso, ma anche di elaborazione e proposizione di vertenza e cambi di percezione dal basso, come chiameremo la nostra democrazia e che veste assumerà la legge (nomos)?