Democrazia sovrana

16 Settembre 2012

Marcello Madau

E’ interessante questa discussione accesasi sul cosiddetto sovranismo, nonostante appaia legata ad un fenomeno di moda politica. Il nome, non senza ambiguità, sembra trovare consenso in chi, generalmente poco o nulla rappresentativo nei contesti sociali, è desideroso di reimpaginare il proprio impegno politico e le proprie alleanze. Si rischia la prosecuzione dell’unico sovranismo ben noto al popolo sardo: quello perfettamente applicato dalla classe politica isolana. Non si sta volando molto più in alto del dibattito regionale di due anni fa.
Curiosa e insuperabile distanza fra il gioco del sovranismo della piccola politica sarda e la determinazione del capitalismo finanziario mediante il suo affidabile governo Monti, in Italia e quindi in Sardegna, di annullare il principale fattore di sovranità connesso alla democrazia, aggredendo e depotenziando anche giuridicamente il ‘ fattore lavoro’.
Il problema principale mi pare quindi la reale consistenza democratica del termine ‘sovranità’.
E’ interessante – non essendo appassionato di appartenenza nazionale – capire se lo strumento sia tecnicamente migliore di altri, o lo sia caso per caso, per accedere e garantire forme avanzate di democrazia, per la tutela della stessa e dell’ecosistema planetario. Teoricamente non è assente – tutt’altro – nella tradizione comunista.
Il termine viene continuamente declinato sia per aspetti specifici (sovranità linguistica, sovranità alimentare, culturale etc.) che nel suo aspetto più generale di livello statuale, in relazione diretta con l’indipendenza.
Un esempio di aspetto specifico: se parliamo di Sovranità alimentare, stiamo dicendo che in Sardegna dovremo avere, ad esempio, la capacità di usare il nostro latte, controllarne i processi produttivi e distributivi, governarne in qualche modo il prezzo. Può essere staccata dalla sovranità dell’ecosistema nel suo insieme? Il fatto che le comunità sarde possano acquisirla è indubbiamente un aumento di democrazia, ma come la mettiamo con i rapporti di produzione – quelli che ci sono e quelli che si creano – che mostrano forme non democratiche?
Il livello più generale: l’indipendenza statuale può avere forme democratiche; ma se la si raggiunge attraverso un regime autoritario, o una dittatura, ne avrà poche o nulla, e terrà pericolosamente lontana ogni possibilità evolutiva. Per definizione, la sovranità è in sé maggiore democrazia? Ovvero, in uno scenario autoritario di sovranità, come vedremo la possibilità di alleanze di classe contro di essa mirate ad una maggiore democrazia?
L’attuale capitalismo sta operando, con particolare gravità, un attacco alla democrazia entro una avanzata globalizzazione di sistemi e soggetti. La sua grandissima forza rende necessaria – per avere qualche speranza di modificare i rapporti in senso democratico – la costruzione di una massa di unità e di ‘urto’ super nazionale.
Naturalmente nulla osta teoricamente di cercare le stesse alleanze di classe partendo da una nuova forma di sovranità statuale, però sono convinto che possa essere una complicazione piuttosto che una semplificazione rispetto alle necessità di ampliare e consolidare i fronti unitari per la democrazia. Oggi serve una dimensione europea che realizzi forme più ampie per gli stessi confini di territorialità. Il capitalismo lo sta facendo prendendosi gioco, credo a ragione, di sovranità nazionali inesistenti. Sono le classi subalterne che non lo fanno.
Per quanto riguarda l’Italia, e la Sardegna, il riequilibrio storico-politico del territorio italiano dovrebbe trovarsi – piuttosto che in pulviscoli nazionalisti e sovranisti – entro nuove forme di unità del Mezzogiorno. Serve una rilettura della questione meridionale e della sua irresolutezza storica. Vi è anche un comunanza di risorse produttive : il Mezzogiorno ha quelle, potenzialmente molto potenti dal punto di vista economico, dei beni culturali e del paesaggio, le principali del cosiddetto ‘sviluppo sostenibile’.
Il risanamento dei danni inferti ai territori del meridione mediterraneo dal capitalismo privato e di Stato rappresenterebbe assieme un grande possibile cantiere di lavoro. E mirerebbe alla precondizione per uno sviluppo corretto dell’economia dei beni culturali e del paesaggio,
Non mancano– le citerò come rapide riflessioni, perché questo contributo non ha né l’ambizione né lo spazio per sistematiche analisi di merito – altre importantissime tematiche che rendono assai limitativa l’ottica sovranista, nonostante qualche apparente corrispondenza.
Mi riferisco ad esempio ai beni culturali e paesaggistici, certamente ascrivibili alla categoria dei commons (e dei new commons): il legame forte con le comunità pretende nuove forme di organizzazione dei territori, attraverso la sovranità sugli stessi delle comunità. Ma la natura di questi commons li rende incompatibili per definizione con i nazionalismi, meritevoli di azioni internazionali per la loro protezione generale. Nè ritengo auspicabile separare, bensì confermare (e migliorare) una legislazione italiana unitaria, nella prospettiva di una buona (e unitaria) legislazione europea.
Penso alla questione femminile, che attraversa i rapporti di potere delle classi e li rimette in discussione, prefigurando forme di democrazia fra le persone ben più avanzate di quelle assicurate dalle battaglie economiche; che trova – senza trascurare l’importanza ma neppure enfatizzarla di ogni specificità culturale e territoriale – nell’unità extraregionale ed extra nazionale la forza di contare e la speranza di modificare un sistema sessista dominante, sotto forme diverse ma unito in tale dominio, in tutti i sistemi sociali del pianeta.
Questioni che hanno anche forti relazioni con l’identità, patrimonio dove la territorialità e la traccia storica è certamente fondamentale e caratterizzante, ma dove la circolazione di culture, persone, idee, ansie di liberazione e forme espressive la reimpagina continuamente, facendo diventare noi stessi, se in relazione aperta e non chiusa verso il mondo, continuamente nuovi, decisamente e sempre più globali.
Chiudiamo con la questione del lavoro, obiettivo dell’azione politica dei poteri capitalistici globali e delle politiche di Mario Monti.
Il collegamento di Taranto e Porto Torres (l’altro ieri a Bologna Maurizio Landini ci ha confermato questo prossimo appuntamento di unità operaia) è solo un piccolo passo verso una battaglia operaia internazionale che ridiscuta la natura stessa della produzione ed i suoi ormai drammatici danni ambientali (vi sta dentro la salute umana).

Ecco perchè trovo grave che forze di sinistra ispirate ai lavoratori, a maggior ragione in Sardegna, si trastullino col sovranismo. Con una sorprendente subalternità alla tipica gerarchia di valori nazionalisti: detta in maniera un po’ tranchant, ma questo è, prima la questione nazionale, poi la questione operaia. In questa discussione della politica regionale, la sovranità popolare e la democrazia reale stanno altrove.

3 Commenti a “Democrazia sovrana”

  1. Valeria Piasentà scrive:

    Sono d’accordo. La discussione sul sovranismo mi trova lontana spettatrice, subendo da abitante del nord ovest le rivendicazioni autonomiste della Lega Nord.
    Ognuno di noi si compone di una serie di identità. L’identità non è necessariamente legata alla geografia o all’etnia. Più ci si smarca dalla propria condizione di partenza – di nascita – più si sviluppano identità particolari. L’ho già scritto qui a proposito del popolo della lirica, di quei cantanti e musicisti (di tutto il mondo) che finiscono per riconoscere come patria più il palcoscenico (di tutti i teatri del mondo) che il paese natio, e la propria identità nel linguaggio della musica che si è sovrapposto a quello del dialetto materno. Partendo da questa intuizione Barenboim e Said hanno fondato con la Divan Orchestra un progetto didattico e culturale, quindi politico.
    Credo abbia ragione Landini, quando vuol far incontrare operai sardi e pugliesi sulla stessa piattaforma. Si scopriranno vicini, questi due soggetti geograficamente lontani, più che ai loro rappresentanti nelle giunte regionali.
    La politica delle ‘piccole patrie’ è superata, ce lo insegna questa crisi economica gestita dall‘internazionale finanziaria. Allora la discussione deve slittare su altri piani, perché il “padrone a casa nostra” si è svuotato di significati. E bisogna trovare formule nuove, anche partendo da teorizzazioni internazionaliste storicizzate, e regole condivise che riescano a superare certi localismi angusti seppur consolatori.

  2. Omar Onnis scrive:

    La politica degli egoismi particolaristici purtroppo non è affatto superata ed anzi prospera proprio dentro le cornici egemoniche costruite dal sistema di dominio presente. Il problema per la Sardegna – e per i lavoratori sardi – è sicuramente quello di aprirsi a tutte le interdipendenze utili e necessarie al confronto e alla consapevolezza di sé, ma è anche quello di acquisire la soggettività storica e politica collettiva necessaria per dispiegare tutte le interdipendenze e le colleganze possibili. Il che significa, nel nostro caso, applicare una cornice diversa da quella “regionale”. La Sardegna come regione d’Italia è una finzione giuridica e… narrativa evidente, senza alcuna ragion d’essere all’infuori della congerie di concause storiche (nient’affatto scritte nelle stelle) che ci hanno portato in tale situazione. Non si può partire, in questo discorso, istituendo un paragone tra le istanze di autedeterminazione della Sardegna e quelle della Lega Nord (come se Sardegna e Padania equivalessero!). Nè si può fare un collegamento diretto tra gli operai (o i lavoratori) sardi e – che ne so – quelli pugliesi, come fossero elementi perfettamente fungibili. Non è così, storicamente e geograficamente non è così. Separare il destino dei lavoratori sardi dalla questione dell’autodeterminazione politica della Sardegna, proprio in queste circostanze storiche, mi pare un esercizio puramente teorico (e inutile). Tale vuoto politico è appunto occupato dal “sovranismo” opportunista.

  3. Giacomo Oggiano scrive:

    Nel passato la chiave del presente. A giudicare dalla storia del movimento operaio, o dalle biografie di Andrea Costa, Amedeo Borghi, di altri internazionalisti o dello stesso Gramsci, è evidente che il periodo storico che ha visto le maggiori conquiste dei lavoratori è stato quello in cui questi si sono identificati in una classe e non in una parlata, in alcune tradizioni o nel colore dei capelli (altrimenti, a parte l’aspetto fisico e il fattore geografico, mi devono spiegare cosa accomuna galluresi e sassaresi ai campidanesi). I braccianti della Capitanata e i minatori di Bugerru, il giovane Di Vittorio e Gramsci, erano perfettamente “fungibili” nella lotta allo sfruttamento e ad un capitalismo che ancora non era in grado di mettere in crisi le sovranità di stati nazionali come Spagna, Italia e la stessa Germania. Piuttosto, a me non sembrano “fungibili” Doddore Meloni (e i suoi milioni di euro evasi) con i precari dei call centers, gli operai della Vynils, i minatori del Sulcis o di Olmedo. Per ciò mi sembra teorico (e, sopratutto, inutile e dannoso) porre la questione dell’autodeterminazione che dovrebbe presupporre lo sfruttamento da parte di una potenza straniera dalla quale si vuole l’indipendenza. E in questo ha ragione Valeria: anche la Lega chiede l’indipendenza della pianura Padana (fattore geografico) dall’Italia perchè si ritiene sfruttata, ha parlate neolatine con influssi celtici e, tradizionalmente, è abituata alla nebbia.

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