Di un’altra razza, son tombarolo.
1 Settembre 2009Marcello Madau
Chi ha a cuore il nostro patrimonio archeologico e vuol avere un’idea dei danni e dei rischi corsi per via dei cosiddetti tombaroli, deve leggere “I Predatori dell’arte perduta” il libro-inchiesta del giornalista de ‘Il Messaggero’ Fabio Isman (Skira editore).
Numeri da brivido: centinaia di migliaia di oggetti, valori di mercato impressionanti. I manufatti sono quelli di rarità e pregio della legge 1089 del 1939: sculture, sarcofagi, vasi dipinti, soprattutto greci ed etruschi, avori, argenti, terrecotte e, non di rado, bronzi nuragici.
I committenti si dividono fra decine di celebri musei (su tutti il Paul Getty Museum), ricchissimi signori, collezionisti privati a loro volta fornitori dei musei suddetti o del potente di turno. Le vittime: il patrimonio culturale comune e l’identità dei territori.
Nel libro i nomi dei grandi trafficanti, la rete areale di una consolidata cupola del crimine. La sensazione che le coperture più potenti restino anonime: Giacomo Medici, Pietro Casasanta, il potentissimo George Ortiz, Gianfranco Becchina, capo mandamento per la Sardegna (con la collaborazione di due volpi del traffico archeologico come Pietro Mocci e Mario Deiana).
Sono state svuotate e devastate migliaia di tombe, case e santuari etruschi, romani, italici; nuraghi, sepolture fenicie, pozzi sacri. Cospicua la produzione di falsi.
Giovanni Lilliu ha detto che sono più i bronzetti fuori dalla Sardegna che quelli pubblicamente noti e visibili nei musei. Come nella scandalosa mostra di Ginevra L’Art del peuples italiques. 3000 à 300 a.C. (Museo Rath, 6 novembre 1993-13 febbraio 1994), con alcuni pezzi improbabili e diversi clamorosi originali. Tutti provenienti da collezioni private svizzere e con la presenza di pezzi del capobanda Ortiz. Ne parlai sulla Nuova Sardegna, vi fu la durissima protesta di Maria Ausilia Fadda e Giovanni Lilliu, partì una rogatoria internazionale e un’indagine ministeriale. Una mostra al cui comitato scientifico parteciparono persino archeologi di spessore e rango istituzionale come il preistoricista sardo Ercole Contu e l’etruscologo Giovannangelo Camporeale. Qualcuno sussurrò che uno dei festeggiamenti del convegno avvenne in un caveau di Ortiz, dove si mangiò e bevette in antichi corredi ceramici greci e romani.
I pezzi sardi esposti, fra veri e falsi, erano 32, quasi tutti bronzi. Di ventiquattro mancava ogni precisazione sulla provenienza, gli altri dalla provincia di Nuoro (l’informazione si fermava a questo livello). Ma un disegno di un pezzo straordinariamente simile a uno dei ‘tesori’ esposti a Ginevra fu trovato dai Carabinieri quando intercettarono un gruppo di trafficanti. Un askòs di bronzo del nuraghe Nurdòle di Orani.
Una delle cose peggiori dello scavo clandestino, nella sua ricerca dell’oggetto da vendere, è la distruzione del contesto: le informazioni iconografiche e stilistiche, pur importanti, sono ampiamente insufficienti per capire. A questo i grandi trafficanti e i loro ‘fiancheggiatori’ culturali si ribellano. George Ortiz si disse avverso, in nome della libertà di arte e mercato, alle convenzioni UNESCO e Unidroit (europea, contro la circolazione dei reperti archeologici).
Nella sua introduzione al catalogo Reverdin, presidente dell’associazione Hellas, sottolineava come la mostra ginevrina non fosse di pezzi archeologici, ma di opere d’arte. “Ci rifiutiamo di prendere in considerazione, come fanno temibili puristi che, privati della loro conoscenza, [i pezzi] non presentano più alcun interesse. Sono eccessi che condannano chi li diffonde”. Noi ben volentieri diffondiamo questi ‘eccessi, perché la presenza di un reperto si comprende e giustifica appieno quando sai da dove proviene, conosci i manufatti ai quali si accompagna negli strati. La natura dell’ambiente edificato può aiutare a cogliere il perché di collocazione e produzione, illuminando sulle ragioni della committenza.
Un oggetto strappato al suo contesto è muto, al massimo balbetta. E’ senza identità. Anche noi, senza il racconto contestuale degli antichi oggetti, perdiamo identità. D’altronde, se non conoscessimo il contesto nel quale scrive Reverdin, una mostra di capibanda del traffico illegale di oggetti archeologici, come potremmo capirne appieno le parole?
Chi opera nello scavo clandestino, chi fiancheggia e giustifica i tombaroli, talora adducendo a scusa il centralismo dello stato delle soprintendenze, serve i grandi trafficanti e distrugge assieme a loro la nostra identità, vero bene comune. In Sardegna la piaga degli scavi clandestini è drammatica. Le comunità dovrebbero mobilitarsi per impedirla. Riusciremo a togliere quelle assurde coperture e connivenze che spesso si percepiscono nei nostri paesi, dove ‘tutti’ sanno chi ha il metal detector e coprono quotidianamente – magari dopo aver firmato qualche appello per la difesa dell’identità – i tombaroli?
Ci colpisce il silenzio su questi temi di Cappellacci e Baire, in una Regione Autonoma che si dice così attenta all’identità. Che dovrebbe temere il premio istituzionale promesso ai suoi distruttori, poichè questo governo Berlusconi vuol fare – in linea con altre simili iniziative – un archeocondono per chi detiene illegalmente reperti archeologici. Impedendo che le sue conversazioni contrattuali vengano intercettate (ma il sardismo identitario si spende fra un tentativo di riconquista alla nazione sarda dell’isola di Malu Entu da parte del deputato Trincas e un Doddore Meloni che resiste nell’isola liberata e batte moneta Shardana).
Oggi non possiamo sperare nel miglioramento di un quadro legislativo che, con decennali azioni bipartisan, non considera furto lo scavo clandestino e il prelievo di reperti. Insomma, non persegue il furto dell’identità, uno dei peggiori possibili.
Siamo in presenza di un governo che indebolisce la tutela tagliando fondi, personale, persino i titoli per diventare soprintendente (ora basta la laurea di primo livello). I Carabinieri stanno svolgendo un lavoro incredibile nella caccia ai trafficanti e nel recupero degli oggetti rubati. Con il recupero di decine di migliaia di reperti dal 1970 ad oggi.
Si tratta di un ruolo che non si può disconoscere, svolto conimpegno e competenza, ma non può né deve supplire quello dei professionisti titolati in archeologia. Non dipenderà dall’Arma, ma c’è il rischio che, a tutela indebolita, la difesa del patrimonio diventi un problema sempre più securitario e sempre meno scientifico. E’ già successo per le soprintendenze archeologiche di Roma e Ostia a suo tempo affidate a Guido Bertolaso. Per questo l’altra sera ad Alghero, alla presentazione del libro di Isman, abbiamo apprezzato le parole del capitano Manconi (Nucleo sardo di tutela del patrimonio artistico) che sosteneva che ogni comune dovrebbe avere un archeologo nei suoi uffici. Per ora la professione di archeologo non è riconosciuta, ma in compenso i grandi trafficanti possono fare mostre pubbliche e perizie museali. D’altronde, la nuova cultura museale di Abu Dhabi sembra in qualche modo unire sia le linee del manager dei musei Mario Resca che quelle di George Ortiz.
2 Settembre 2009 alle 19:21
Complimenti e grazie per le informazioni. Condivido l’indignazione per le alte coperture di cui godono tali personaggi e per la complicità ipocrita (e interessata?) di alcuni presunti illustri accademici.