Diario Palestina 2: Jenin
9 Maggio 2014Mariella Setzu
Ora eccoci al Freedom Theatre di Jenin, fondato sull’eredità di Arna Mer Kamis, un’israeliana sposata con un palestinese e anche con la causa palestinese. Il suo Teatro delle pietre, così lo aveva chiamato all’inizio, doveva essere un modo per cercare di «rovesciare la piramide dal basso», attraverso la cultura. Gli oppressori cercano sempre di distruggere la cultura dell’oppresso e creare divisioni: il Freedom Theatre crea cultura e unità, quindi è parte del mosaico della resistenza palestinese. Juliano, il figlio di Arna, raccolse quel progetto e continuò a lavorare.
Luisa ci presenta Nabeel Raee, il direttore, che ci parla del teatro attraverso i suoi incontri con alcuni protagonisti della resistenza palestinese. Ci dice che cultura, politica, salute sono tutte questioni connesse. Ci parla di Juliano e della sua visione del teatro: «benvenuto nella rivoluzione» fu il saluto di Juliano quando Nabil si unì al teatro.
Rivoluzione è anche per le ragazze, che nel teatro possono mettere in questione le limitazioni imposte allo stile di vita delle donne: rivoluzione è per chi ha subìto i traumi del conflitto, perché trova una via per esprimerli e curali.
Juliano fu ucciso il 4 aprile 2011 e dopo molti membri del teatro furono arrestati; eppure l’anno successivo ci sono state 6 produzioni. Attualmente ci sono 17 studenti del teatro, di cui 3 ragazze. Raggiungono il titolo dopo tre anni di studi.
Prendono la parola Aduan, direttore tecnico, e due studenti. Dicono fra l’altro che per loro l’Italia è un posto speciale – forse, ho pensato io, grazie a Vittorio Arrigoni e ad altri attivisti – ma come dimenticare che l’Italia è un formidabile partner commerciale dello Stato d’Israele con cui ha stipulato accordi anche nella cooperazione militare? I ragazzi sono pieni di passione per i loro studi teatrali e sentono di poter dare validi contributi. Non vengono solo da Jenin, ma anche da altre parti. Anche le famiglie accettano e sostengono il teatro.
Non visitiamo il campo profughi di Jenin per motivi contingenti. Il campo fu praticamente raso al suolo dall’esercito israeliano nel 2002, durante la seconda Intifada, e la bandiera palestinese fu vietata. Ricordo il formidabile documentario «Jenin, Jenin» di Mohamed Bakri (proiettato in una delle rassegne cinematografiche di Al Ard a Cagliari) che fu boicottato nei circuiti commerciali. Allora – ci racconta Luisa Morgantini – l’anguria assurse al ruolo di bandiera, a causa dei suoi colori, rosso, verde, bianco, nero, che son quelli della bandiera palestinese. In testa ai cortei c’era chi mostrava angurie spaccate in due.
L’anguria era un prodotto tipico di Jenin, ora se ne producono poche a causa del taglio dell’acqua attuato dal governo israeliano per città, villaggi e campi profughi palestinesi.
Nella foto: Un murale a Ramallah che esprime l’orrore del carcere di massa per il popolo palestinese.