Donne che decidono
16 Dicembre 2014Diletta Mureddu
Le donne sono quelle che pagano maggiormente l’assenza dei servizi, un welfare che non esiste, per cui si fanno carico di tutti i lavori di cura il cui valore non è nemmeno riconosciuto. Siamo noi che ci occupiamo dei figli e dei nostri anziani. A questo aggiungiamo le carenze dei nidi che nel centro e sud Italia non esistono praticamente e quando esistono sono costosissimi. È chiaro che le donne si trovano spesso a scegliere tra il lavoro e la famiglia e la scelta è presto fatta. Invece il lavoro delle donne e le politiche di genere non devono diventare un lusso concesso solo nei periodi di crescita delle aziende, ma proprio di fronte alla crisi, va perseguita una politica di valorizzazione del contributo che le donne possono dare allo sviluppo e all’innovazione,attingendo a quelle peculiarità che fanno della differenza il vero valore aggiunto. Occorre rilanciare il tema del lavoro delle donne, sapendo che in questo momento di crisi è un impegno ancora più difficile. È facile che nelle trattative sindacali l’attenzione alle donne passi in secondo piano, sia perché le emergenze sono molteplici, ma anche per una questione culturale, per cui in fondo si ritiene che questi temi possano aspettare e in fondo non siano poi così importanti come gli altri. Accesso al lavoro, differenze salariali, formazione, segregazione professionale, organizzazione del lavoro maschile sono aspetti che deteriorano profondamente il lavoro delle donne. La scelta del sindacato deve essere quella di puntare sulla libertà del lavoro delle donne, come strumento per migliorare la coesione sociale, produrre ricchezza e migliorare le stesse performance delle imprese.
La donna è vista come un possesso, come una proprietà del datore di lavoro che può decidere della sua vita personale e del suo futuro. La maternità è la prima causa di discriminazione nei luoghi di lavoro, le aziende la vedono come un costo, anziché come un investimento e una ricchezza e se devono scegliere magari tra un ingegnere uomo e una donna scelgono l’uomo, perché l’uomo può garantire una maggiore presenza a lavoro rispetto alla donna. Da sempre, lo sappiamo, è la donna infatti che sta a casa, la “regina della casa”, come veniva definita fino a poco tempo fa”. Questo ha determinato e ha creato un mondo del lavoro dove l’unità di misura è l’uomo, modelli maschili di organizzazione del lavoro in cui la donna a fatica riesce a inserirsi.
Quindi ritengo che il problema debba essere affrontato su due fronti: da un lato corre favorire l’ingresso alle donne nel mondo del lavoro anche provando a cambiare il mondo del lavoro tenendo conto delle differenze di genere. Per esempio la diversa vulnerabilità delle donne alle malattie professionali o la diversa tolleranza alla fatica fisica in certi lavori pesanti. Uomini e donne sono diversi insomma. Dall’altra parte occorre agire per fare in modo che gli uomini intervengano maggiormente nel lavoro di cura. Occorre parlare di condivisione della genitorialità allora più che di maternità perché se in Italia i congedi parentali sono usati quasi esclusivamente dalle donne allora dobbiamo riconoscere che c’è un problema. Raccontavo recentemente che un datore di lavoro ha convocato un padre che usava i congedi parentali chiedendogli: “scusa, che problemi hai? Vedo che usi molti congedi. Lo sai che è giusto che li usino le donne? “Con tanto di velate minacce e inviti a non utilizzarli. È ancora purtroppo un modello culturale troppo radicato quello della suddivisione rigida dei ruoli in cui la donna deve stare a casa e l’uomo portare a casa il pane. Occorre quindi che il tema della cura verso i figli, ma anche verso gli anziani assuma il significato di bene comune.Raccontavo recentemente che un datore di lavoro ha convocato un padre che usava i congedi parentali chiedendogli: “scusa, che problemi hai? Vedo che usi molti congedi. Lo sai che è giusto che li usino le donne? “Con tanto di velate minacce e inviti a non utilizzarli. È ancora purtroppo un modello culturale troppo radicato quello della suddivisione rigida dei ruoli in cui la donna deve stare a casa e l’uomo portare a casa il pane. Occorre quindi che il tema della cura verso i figli, ma anche verso gli anziani assuma il significato di bene comune
Per creare davvero quel cambiamento culturale che tutti auspichiamo occorre inoltre intervenire molto a monte, già a scuola e in famiglia, perchè non dimentichiamoci che i nostri bambini e le nostre bambine sono i nostri futuri cittadini, e solo intervenendo su di loro ed educandoli alla libertà e al rispetto delle differenze possiamo pensare di avere qualche speranza di miglioramento per il futuro, perché già nell’infanzia tendiamo a educare i bambini e le bambine in modo molto stereotipato, per cui il maschietto non è bene che esprima le sue emozioni, non deve piangere, non deve essere fragile, si dice che non deve fare la femminuccia insomma (pensiamo a cosa stiamo comunicando al bambino in questo modo) e la bambina deve essere remissiva, dolce e aggraziata. Si tratta di una visione molto rigida dei due ruoli, molto dicotomica, in cui il rischio è che non rimanga molto spazio per le sfumature e le differenze rispetto a quest’idea stereotipata del maschile e del femminile. Quello che insegniamo ai bambini con i nostri comportamenti in casa e a scuola viene infatti interiorizzato e quel bambino tenderà ad assumere quei comportamenti ritenendoli normali. Faccio un esempio estremo, ma che avviene e accade: se un bambino assiste continuamente a episodi di violenza in famiglia imparerà che la violenza è un modo possibile di entrare in relazione e il rischio per il futuro lo conosciamo e ce lo possiamo immaginare.
Esistono diversi modi di essere donne e uomini e molto dipende dalla cultura che li determina, per questo si possono trasformare e cambiare. Il genere a differenza del sesso è un concetto che risente molto della cultura e che può cambiare quindi. E oggi è ancora diffusa l’immagine ideale della donna che oscilla tra due poli: quello della sposa/madre passiva o idealizzata oppure l’oggetto dei desideri altrui.
Un altro aspetto fondamentale per una corretta cultura di genere è il linguaggio. La lingua rispecchia la cultura di una società e ne è una componente fondamentale perché condiziona il pensiero, Le parole non si limitano a descrivere le categorie sociali, ma hanno il potere di costruire e rafforzare vecchi e nuovi stereotipi culturali rispetto ai ruoli attribuiti a donne e uomini. Il linguaggio può essere motore di cambiamento se lo si usa in modo corretto, ma può anche distruggere.
Pensiamo alle molestie e alle violenze psicologiche che si basano su insulti e denigrazioni. E pensiamo al linguaggio giornalistico che troppo spesso continua a trasmettere un’idea della donna vittima di violenza che in un certo modo se l’è andata a cercare. La nostra lingua enfatizza fortemente il maschile e oscura molto il femminile. Il linguaggio costruisce determinati modelli di maschile e femminile e di certo la donna non ne esce bene. E aggiungo che l’insulto sessista sta diventando normale, cosi’ come il turpiloquio e le offese più becere. A volte sembra quasi una gara a chi usa la parolaccia più forte per avere maggiore visibilità. Troppo spesso purtroppo stiamo assistendo a un imbarbarimento del linguaggio per cui si fa a gara a chi è può scurrile e offensivo verso il prossimo. P ..perché il linguaggio può essere un portatore di grandi stereotipi e discriminazioni. La parola è un potente strumento di cambiamento, ma molto dipende da noi e dall’uso che ne facciamo.
E nonostante noi donne studiamo di più e con risultati migliori alla fine ci vengono comunque chiuse le porte dei ruoli cosiddetti apicali. E penso alla politica per esempio. La presenza femminile nella cosa pubblica è ancora molto ridotta, perché storicamente la donna era confinata negli spazi privati. Mi viene in mente a questo proposito che l’anno scorso il Consiglio Regionale ha bocciato la doppia preferenza di genere dopo la battaglia portata avanti da diverse associazioni come Se Non Ora Quando con la CGIL. In quel modo si è persa un’ennesima occasione di civiltà che avrebbe certamente aiutato le donne a entrare in un mondo, quello delle istituzioni, che è ancora troppo maschile.
Non dobbiamo nemmeno dimenticarci delle discriminazioni omofobiche e transfobiche di cui si parla meno, ma non per questo meno diffuse. Credo che la denuncia in questi casi sia ancora più difficile visto il diffuso atteggiamento della nostra società di considerare normale quello che è socialmente accettato e conosciuto. Spesso questo tipo di discriminazione avviene a monte, nel senso che le persone omosessuali, lesbiche e soprattutto transessuali (per via della differenza tra sesso biologico e apparenza fisica) vengono escluse dal mondo del lavoro ancora prima di accedervi, magari durante il primo colloquio di lavoro.
E ci sono anche le donne migranti che subiscono discriminazioni multiple, per il fatto che sono donne e per il fatto che sono straniere. Si ritrovano a svolgere lavori poco qualificanti e poco remunerati, quasi tutti nel settore domestico; inoltre per loro è difficile l’accesso a strumenti di welfare, e se hanno dei figli piccoli non sanno nemmeno a chi rivolgersi perché sono sole. Spesso hanno una famiglia nel paese di origine da cui stanno lontane e per loro non è affatto semplice integrarsi, per la lingua, i pregiudizi e tutta una serie di ragioni. Il percorso migratorio comporta, dunque, notevoli effetti a livello di rapporti familiari; il distacco dalla famiglia di origine che spesso richiede di ‘lasciare indietro’ marito e figli. Questo determina una ristrutturazione dei legami parentali e familiari, con notevoli conseguenze psico-emotive. E dobbiamo anche considerare che le donne immigrate sono ancora più esposte ai rischi di violenze nei luoghi di lavoro. Occorre allora che questi fenomeni non rimangano degli eventi singoli che sono ancora più difficili da risolvere, ma assumano i contorni di un’urgenza collettiva di cui tutti e tutte è necessario ci assumiamo le responsabilità.
Diletta Mureddu è la responsabile del centro donna CGIL di Cagliari che si occupa prevalentemente di violenze e discriminazioni sui luoghi di lavoro, oltre che di consulenze anche legali in tema di maternità e diritto di famiglia e di politiche di genere in senso più ampio. Il Centro offre un accompagnamento di tipo psicologico alle donne che subiscono violenze. È presente anche un’avvocata che offre patrocinio gratuito alle donne che non hanno la disponibilità economica.