Donne e carcere (1)
16 Maggio 2015Gianfranca Fois
“Il neoliberismo, ci dice lo studioso francese Loic Wacquant in accordo con il suo collega dell’Università di Berkley Jonathan Simon, ha una precisa politica di controllo sociale: l’esclusione ……… ora il modello emergente di controllo sociale è il carcere”.
In questo modo i problemi sociali, le nuove forme di miseria e povertà, determinati dalle politiche neoliberiste vengono affrontati non con riforme che favoriscano una migliore distribuzione delle ricchezze e un migliore welfare ma con la repressione e la pretesa di garantire l’ordine pubblico. Si passa così dallo stato assistenziale allo stato penale.
E infatti negli USA, patria del neoliberismo, il numero dei detenuti è dalle 5 alle 9 volte superiore a quello dei paesi dell’Europa occidentale e di gran lunga superiore a quello di Russia e Cina.
L’Italia ha invece il problema del sovraffollamento delle carceri e cerca di risolverlo costruendo nuovi istituti di pena e non con la ricerca di altre modalità, più articolate e più varie per punire chi si rende colpevole di un reato come avviene in altri paesi europei, segno che la politica può fare altre scelte meno supine all’ideologia neoliberistica.
I detenuti, già con un insufficiente riconoscimento dei diritti civili e umani, vivono in condizioni difficili, in gran parte provengono dagli strati più deboli della società, spesso si tratta di persone che hanno compiuto piccoli reati che l’opinione pubblica, suggestionata da una ben organizzata campagna stampa e politica, ritiene socialmente pericolosi mentre i corruttori, coloro che si impadroniscono di ingenti somme della collettività o inquinano l’ambiente provocando seri danni alla nostra salute molto difficilmente finiscono in carcere.
All’interno di una situazione così complessa esiste un settore, quello femminile, che vive sulla propria pelle una quota di sofferenza aggiuntiva dovuta alla differenza di genere.
La storia del carcere femminile nasce nel nostro paese con gli istituti correttivi religiosi, donne che avevano commesso reati insieme a ragazze e donne che si erano allontanate dai parametri morali del tempo, considerate peccatrici o diverse e quindi da correggere. La correzione era affidata alle suore. Questo modello che badava più alla custodialità e alla correzione che alla punizione è in pratica rimasto invariato sino alla riforma del Codice penitenziario del 1975 quando sono stati aperti all’interno delle carceri settori femminili, sono state introdotte nuove figure professionali, anch’esse donne, e le suore sono state via via allontanate.
Secondo alcune studiose, ad esempio la giurista Tamar Pitch, però l’uguaglianza dei due sistemi giudiziari maschile e femminile ha ridotto le donne a una maggior marginalità, i loro bisogni infatti quasi spariscono davanti alla forte preponderanza della presenza maschile, condannate a una minore visibilità e rilevanza.
Le donne detenute in Italia rappresentano infatti meno del /5% della popolazione carceraria, in linea con i dati europei. La maggioranza è in carcere per tossicodipendenza e per reati contro il patrimonio. Un alto numero è costituito da donne rom o straniere soprattutto dell’Europa dell’Est, del Maghreb e dell’Africa sub-sahariana.
In gran parte hanno un tasso di scolarizzazione basso, spesso sono disoccupate o casalinghe. Il numero più rilevante è dato da chi sconta una detenzione breve o media ma soprattutto da chi è in attesa di giudizio ma non è affidabile, spesso straniere che non hanno una residenza stabile. Questo quindi determina un’impossibilità o una maggior difficoltà a seguire per esempio corsi di orientamento al lavoro o di professionalizzazione, opportunità riabilitative e socioformative che aiutino un inserimento nel mondo del lavoro dopo la pena e diminuiscano il tasso di recidiva. Senza contare il fatto che i progetti sono pochi per mancanza di fondi e anche quando ci sono appaiono più pensati per le detenute che con le detenute.
La letteratura sulle recluse è ampia nel mondo anglosassone, limitata nel nostro, spesso nelle inchieste il mondo maschile è quello che detta la norma che viene presentata come universale.
Ma le vite delle donne e degli uomini sono diverse e questo determina un impatto diverso del carcere, nel modo di viverlo e nelle conseguenze.
Dalle inchieste emerge che i problemi principali delle detenute riguardano essenzialmente la deprivazione affettiva, mancanza dei figli, della famiglia, dei compagni e spesso l’ottusità della burocrazia o di qualche direttore ostacola la possibilità di mantenere legami stabili e continuativi con i propri cari. Succede inoltre, più frequentemente che per gli uomini, che le donne in carcere non riescano a mantenere i rapporti che avevano fuori, il partner le abbandona, le abbandona talvolta la famiglia per la vergogna e anche per i figli avere la mamma in carcere sembra un fardello più doloroso da sopportare.
Un altro problema sorge in relazione al ruolo di cura che viene a mancare e questo viene vissuto molto dolorosamente anche se magari cela qualche ambiguità. Spesso questo ruolo infatti non è stato praticato prima della reclusione e quindi in carcere si scatenano pesanti sensi di colpa oppure il carcere diventa un momento per vedere se stesse come donne e non in relazione agli altri.
Sicuramente anche le donne subiscono un processo di infantilizzazione, pensiamo solo alle parole, all’uso dei diminutivi, secondino, domandina, scopino, tutto viene deciso da altri, la sveglia, l’ora d’aria, la preghiera… In questo processo che è anche di vittimizzazione è difficile rielaborare criticamente il proprio passato e proiettarsi nel futuro riprendendo in mano la propria esistenza, eppure questi sarebbero momenti importanti per la costruzione di una nuova vita.