La soluzione dei problemi dei pastori sardi secondo la Lega Coop Sardegna
16 Febbraio 2019
Non accenna a placarsi la protesta dei pastori sardi contro il crollo del prezzo del latte ovino. Un risultato importante è stato già raggiunto: il premier Conte in visita nell’isola ha annunciato che per il 21 febbraio sono convocati a Roma allevatori, produttori e grande distribuzione. L’esito appare scontato: saranno varate nuove forme di assistenza finanziaria per consentire ai pastori di andare avanti e non chiudere l’attività. Ma la soluzione al problema è davvero questa? Non c’è il rischio che tra qualche mese o anno ci si ritrovi esattamente dove si sta ora? Abbiamo chiesto un parere ad un esperto del settore, Claudio Atzori, presidente della Lega Coop Sardegna.
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Partiamo dalla Lega Coop. Chi rappresenta?
“In Sardegna complessivamente ci sono 35 produttori di pecorino di cui 12 industriali e 23 cooperative i cui soci sono gli allevatori ovvero i pastori. Di queste ultime noi ne rappresentiamo 11. Le più rilevanti in quanto lavorano l’80% del latte trasformato dalle cooperative”.
Perché il prezzo del latte dipende dal prezzo del pecorino romano?
“Perché rappresenta il 70% del formaggio ovino prodotto in Sardegna. Alla borsa di Milano oggi è quotato 5,4 euro al chilo. Nel 2015 grazie alla crisi del parmigiano reggiano era arrivato a 9,8 euro. Una situazione straordinaria che ha consentito alle cooperative di pagare il latte anche 1,4 euro al litro”.
Oggi invece viene pagato solo 60 centesimi al litro e questo ha scatenato la clamorosa protesta dei pastori.
“In realtà non è esattamente così. Bisogna fare chiarezza. Sessanta centesimi è il prezzo pagato agli allevatori dagli industriali. Quello pagato dalle cooperative è più alto perché a fine anno ai pastori vengono distribuiti anche gli utili derivanti dalla vendita del formaggio, sotto forma di un aumento del prezzo del latte conferito”.
Però non è sufficiente per far tornare i conti dei pastori. Il problema si può risolvere spostando la produzione dal pecorino romano agli altri due dop esistenti, il pecorino sardo e il fiore sardo?
“No perché alla borsa di Milano il prezzo del pecorino sardo non è molto maggiore di quello del pecorino romano. Siamo a 5,8 euro. Quaranta centesimi in più che servono per compensare costi di produzione più alti. C’è poi da aggiungere un altro aspetto di non secondaria importanza. Non tutto il latte può essere utilizzato per il pecorino sardo. Solo quello di qualità è idoneo. Questo problema non si pone per il pecorino romano perché la salatura annulla tutti i batteri e dunque rende utilizzabile anche il latte meno buono”.
Secondo alcuni la sostanziale mono produzione del pecorino romano è la principale causa della crisi dei pastori. Se la diversificazione a favore del pecorino sardo non è una soluzione significa che ci troviamo di fronte ad un problema irrisolvibile?
“No, la soluzione del problema esiste ed è anche piuttosto semplice. Il pecorino romano è un prodotto importante molto apprezzato nel mercato internazionale, soprattutto negli Stati Uniti dove viene utilizzato come formaggio da grattugia o da taglio per insaporire i formaggi di latte vaccino locali. Il mercato ha però un punto di saturazione ovvero di equilibrio che non bisogna superare. Fino a 240 mila quintali di produzione il pecorino romano garantisce un prezzo tra i 7,5 e gli 8 euro che consentirebbe ai pastori di ricevere almeno 1 euro al litro”.
Quindi per uscire dalla crisi del settore sarebbe sufficiente porre un tetto alla produzione del pecorino romano. Perché non viene fatto?
“Perché il comparto è parcellizzato in aziende di piccole dimensioni che non riescono a fare sistema. Allevatori e trasformatori procedono in ordine sparso. Dei 35 produttori di formaggio solo una parte, quella di maggiori dimensioni, si regge finanziariamente. L’altra ha bisogno di fare più prodotto e di svenderlo sul mercato. Questo innesca un circolo vizioso che porta ad un eccesso di produzione che fa abbassare il prezzo del pecorino romano e di conseguenza del prezzo del latte pagato ai pastori”.
Come si può fare sistema?
“Finanziando le filiere e non le singole aziende. E’ una battaglia che come Lega Coop stiamo conducendo da anni”.
Cosa è una filiera?
“Un accordo tra gli operatori che può essere fatto in vari modi: una cooperativa, una rete di imprese, una organizzazione di produttori. I pastori potrebbero produrre il latte con le caratteristiche richieste dalle aziende di trasformazione che a loro volta producono quello che richiede il mercato. Con il prezzo stabilito all’origine sia per quanto riguarda il latte che il mercato del formaggio. Questa è una filiera. Per funzionare devono mettere assieme 1000/2000 pastori e trasformatori in grado di lavorare almeno 30 milioni di litri di latte. Questa sarebbe la soluzione dei problemi senza nessun aiuto”.
I benefici di una filiera sarebbero limitati solamente al fatto di poter controllare più agevolmente la produzione e quindi i prezzi di mercato?
“Il maggiore potere contrattuale è solo uno dei benefici del fare sistema. Un altro è sicuramente la possibilità di diversificare e aumentare la qualità della produzione. Per fare investimenti sull’innovazione di prodotto la dimensione delle aziende è importante. Perché è necessario pagare i tecnici, sostenere i costi delle certificazioni, fare gli investimenti nella promozione commerciale e così via. Gli operatori di piccole dimensioni tutto questo non lo possono fare. Attenzione però, in Sardegna non siamo all’anno zero. Esistono già delle realtà di successo, come per esempio la cooperativa Cao, il secondo produttore di formaggi dell’isola, che ha diversificato la produzione e oggi produce formaggi ovini di tutti i tipi”.
Mi sembra di capire che anche lei però alla fine pensa sia necessario andare oltre la mono produzione del pecorino romano.
“Bisogna andare oltre la qualità che si fa ora migliorandola. E questo si può fare anche con il pecorino romano che può essere di assoluta eccellenza. Bisogna infatti differenziare tre fasce di questo prodotto. Quello che ha una salatura inferiore al 3% è un formaggio di ottima qualità con un prezzo uguale a quello del parmigiano reggiano che viene considerato uno dei prodotti di eccellenza del made in Italy. Bisognerebbe aumentarne la quantità a scapito di quella che ha una salatura del 6-7% e che viene usata per il taglio. Ovviamente nel rispetto del limite dei 240 mila quintali”.
E sul pecorino sardo cosa si potrebbe fare per farlo diventare un prodotto simbolo del made in Italy?
“Andare oltre il pecorino di cui siamo innamorati noi che ha un gusto molto forte. Dobbiamo smetterla di pensare che i nostri gusti siano quelli che piacciono al mondo. Pecorini molto apprezzati nei mercati internazionali, come il francese roquefort o lo spagnolo manchego, hanno sapori delicati e non forti. Spesso non si riesce addirittura a capire se siano vaccini o ovini”
La crescita delle filiere deve avvenire per opera dalla politica o dei produttori?
“L’iniziativa deve partire dagli operatori. Però anche la politica gioca un ruolo importante perché deve evitare di destinare i finanziamenti previsti per il settore agroalimentare e del latte alle singole aziende e non alla creazione delle filiere. Mi chiedo: se è così facile risolvere i problemi perché le cose rimangono sempre uguali? Chi è che vuole produttori deboli e bisognosi di assistenza? Questo è il tema vero.
Me lo dica lei. Chi è che vuole conservare lo status quo?
“Chi approfitta della situazione attuale ovvero chi ci mangia. In Sardegna abbiamo ben tre agenzie pubbliche che seguono il settore agro alimentare attorno alle quali ruota il mondo dei professionisti che seguono migliaia e migliaia di pratiche burocratiche che vengono pagate dai produttori e finanziate dalla Regione. Uno degli effetti positivi di uno sviluppo delle filiere sarebbe anche quello di porre fine a questo sistema, riducendo le pratiche a poche decine all’anno”.
Fino ad ora non ha parlato dei consorzi. Non hanno un ruolo importante nelle filiere?
“In Sardegna sono tre, uno per ogni dop che abbiamo: pecorino romano (il più grande), pecorino sardo e fiore sardo. E proprio per questo motivo non fanno parte delle filiere perché queste devono produrre tutti i prodotti, non solo uno dei tre. I consorzi svolgono comunque un ruolo importante per la tutela e la promozione. Pur non vendendo direttamente possono consentire l’ingresso in mercati specifici, come accaduto recentemente con un progetto che ha fatto conoscere il pecorino sardo al mercato canadese”.
[Da Tiscali Notizie]
18 Febbraio 2019 alle 12:10
E’ da alcuni giorni che tento di mettere in evidenza le criticità del settore.
Forse bisognava pensarci prima e affrontare il problema con cognizione di causa.
Sul prezzo del latte vorrei sottoporre alcune riflessioni:
Con grande rispetto per la battaglia dei pastori, penso che il prezzo del latte sia l’effetto di una situazione che sta sempre più peggiorando; l’analisi delle cause di tutto questo sono completamente assenti nel dibattito politico; senza volerli assolvere dalle loro responsabilità, che sono enormi, sembra che la colpa di questa situazione sia solo dei trasformatori, in particolare il Consorzio del Pecorino Romano; intanto va chiarito che nel consorzio ci sono 21 cooperative di pastori, 12 aziende industriali, 1 stagionatori e 7 caseifici non associati, quindi i pastori sono ampiamente rappresentati; da più di vent’anni i presidenti del consorzio, salvo qualche breve intermezzo, sono stati rappresentanti di cooperative di pastori.
https://www.pecorinoromano.com/consorzio/produttori
Spunti di riflessione, per analizzare la situazione e per individuare le criticità del sistema.
Secondo me il problema è strutturale; il settore è fortemente condizionato dall’utilizzo irrazionale del suolo agrario, dall’importazione di foraggio e di granaglie per mangime che incidono fortemente sul bilancio aziendale. Ormai la Sardegna agricola si basa sulla monocoltura della pastorizia; basta guardare l’utilizzo dei terreni coltivabili, 80.04% foraggere permanenti (pascolo), 8.54% erbai e prati avvicendati, il resto le altre coltivazioni, e questo non è utile soprattutto alla pastorizia; si preferisce la quantità del prodotto, con tutti i problemi di surplus di produzione, alla qualità.
La soluzione del problema si trova facendo un’analisi di questi numeri del 2011 elaborati dal CREA; oggi la situazione è peggiorata e nelle ultime elaborazioni, compresa quella del 2018, con la prefazione dell’assessore RAS, la tabella non viene neanche riportata; per nascondere la realtà?
https://www.dropbox.com/s/tstq065mcfupu9z/2%20Sardegna%20agricoltura%20dati%20CREA.jpg?dl=0
Bisogna riprendere in mano la pianificazione territoriale del settore agropastorale, per riordinarlo e rilanciarlo sulla base di uno sviluppo armonico, compatibile con la risorsa territorio e dell’ambiente; bisogna riportare le pecore, ma anche le capre, ai loro pascoli naturali e utilizzare le terre coltivabili, soprattutto quelle irrigue, per realizzare le scorte di foraggio e di granaglie per i mangimi, che sono le voci di spesa più importanti delle aziende.
Secondo ISMEA il costo di produzione latte ovino è mediamente di 1,12€/litro, 1,43 €/litro per aziende sotto i 385 capi, 1,03€/litro per aziende sopra i 385 capi.
http://www.ismeamercati.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/8702
Sul prezzo del latte: per fare un chilo di Pecorino Romano ci vogliono 6 litri di latte.
La quotazione del Pecorino Romano (mercato Milano) è di 5,53 €/kg, nel link trovate anche l’andamento degli ultimi anni, compreso quando nel 2015 il Pecorino Romano aveva superato il Parmigiano Reggiano, la quotazione del Pecorino Romano era a 9,38 €/kg e il Parmigiano Reggiano a 7,55 €/kg; è evidente che con questi numeri non si riesce ad ottenere quanto richiesto dai pastori, 1€+IVA al litro; è evidente che bisogna ridurre la produzione di Pecorino Romano diversificando con altre tipologie di Pecorino, tra l’altro più remunerative ( Pecorino Sardo, Fiore Sardo, etc.) oppure ridurre la produzione di latte.
https://www.clal.it/index.php?section=pecorino
Eppure il problema si era posto per tempo
https://www.sardiniapost.it/economia/pecorino-romano-lallarme-csa-eccedenze-record-sardegna/
18 Febbraio 2019 alle 12:24
Secondo me il problema è strutturale; il settore è fortemente condizionato dall’utilizzo irrazionale del suolo agrario, dall’importazione di foraggio e di granaglie per mangime che incidono fortemente sul bilancio aziendale. Ormai la Sardegna agricola si basa sulla monocoltura della pastorizia; basta guardare l’utilizzo dei terreni coltivabili, 80.04% foraggere permanenti (pascolo), 8.54% erbai e prati avvicendati, il resto le altre coltivazioni, e questo non è utile soprattutto alla pastorizia; si preferisce la quantità del prodotto, con tutti i problemi di surplus di produzione, alla qualità.
La soluzione del problema si trova facendo un’analisi di questi numeri del 2011 elaborati dal CREA; oggi la situazione è peggiorata e nelle ultime elaborazioni, compresa quella del 2018, con la prefazione dell’assessore RAS, la tabella non viene neanche riportata; per nascondere la realtà?
https://www.dropbox.com/s/tstq065mcfupu9z/2%20Sardegna%20agricoltura%20dati%20CREA.jpg?dl=0
Bisogna riprendere in mano la pianificazione territoriale del settore agropastorale, per riordinarlo e rilanciarlo sulla base di uno sviluppo armonico, compatibile con la risorsa territorio e dell’ambiente; bisogna riportare le pecore, ma anche le capre, ai loro pascoli naturali e utilizzare le terre coltivabili, soprattutto quelle irrigue, per realizzare le scorte di foraggio e di granaglie per i mangimi, che sono le voci di spesa più importanti delle aziende.