Elezioni senza partecipazione?
16 Luglio 2013Marco Ligas
Leggendo i giornali dell’isola, compresi i siti online, si coglie un’attenzione particolare per le prossime elezioni regionali. È il segno di come le nostre classi dirigenti riescano a sottovalutare tante cose ma non le elezioni con tutti i preliminari che diventano sempre più impegnativi e rissosi. Solo l’indeterminatezza del quadro politico nazionale condiziona per il momento i programmi di tutti.
Comunque nessuno dei partiti rimane inoperoso. Anzi, si moltiplicano le ipotesi sia sulle possibili aggregazioni, sia sulle candidature. Questi due aspetti hanno il primato su tutto il resto.
Eppure, vista la crisi che attraversa la Sardegna, non sarebbe inopportuna una maggiore attenzione per i problemi che la determinano. Le questioni del lavoro e della tutela dei servizi essenziali, che sono aspetti fra i più importanti della vita delle persone, meriterebbero risposte più incisive di quelle date sinora.
Su queste questioni invece prevalgono il silenzio o un’informazione superficiale che sono il segno di una incapacità propositiva e al tempo stesso di una rassegnazione nei confronti delle scelte imposte da un sistema politico ed economico dominato dagli interessi di gruppi di potere sempre più ristretti e forti.
E sono proprio l’incapacità e la rassegnazione che alimentano i pericoli dell’autoritarismo e la crisi della democrazia e della partecipazione. Non a caso si moltiplicano gli episodi di mal governo e di distacco dei cittadini dalle istituzioni mentre cresce la sfiducia verso qualsiasi ipotesi di cambiamento.
Se osserviamo i comportamenti di chi governa e amministra la Sardegna non possiamo non sottolineare la gravità di alcune scelte effettuate nelle ultime settimane: la nomina di 5 commissari (chissà in nome di quale democrazia rappresentativa!) in sostituzione dei presidenti delle province, e guarda caso tutti appartenenti alla coalizione che governa la Regione; il viaggio del governatore e di una parte del suo clan in Brasile e in Argentina su mandato della Curia di Cagliari ma a spese della collettività sarda, l’incriminazione di alcuni assessori e funzionari per l’uso personale dei finanziamenti pubblici destinati ai partiti.
Si tratta di episodi che fanno parte della cronaca più recente ma hanno una continuità con quanto è stato fatto nei mesi e negli anni precedenti: sono la manifestazione arrogante di chi si sente legittimato a governare non negli interessi dei cittadini ma secondo quelli del proprio clan di appartenenza. È all’interno di questa filosofia del potere politico che prendono corpo e si consolidano le decisioni per cui chi inizia un’attività politica la praticherà all’infinito. Se ci saranno cambiamenti si tratterà di trasferimenti: dalla politica tout court alla gestione delle banche o delle fondazioni, alla direzione degli enti, oppure si passerà da un’istituzione all’altra, e perché no da un consiglio regionale al senato.
Recentemente si sono svolte le elezioni amministrative in alcune città, poco prima ci sono state quelle per il rinnovo del parlamento. Tra le due consultazioni c’è stato un crollo di partecipanti; ormai tutte le elezioni registrano l’assenza di almeno metà degli elettori. È un fenomeno comune a tutti i paesi occidentali, viene detto. Già, che bisogno c’è di preoccuparsi per queste cose? Se l’occidente e quindi il mondo della finanza e della globalizzazione dà questi input forse è arrivato il momento di correggere il concetto di partecipazione: questo è il nuovo messaggio, perentorio e incalzante che viene suggerito/imposto da chi il potere lo ha già; Marchionne lo ha messo in pratica da un pezzo, i nostri politicanti cercano di imitarlo.
Proviamo a respingerlo già alle prossime elezioni regionali (o prima se saranno precedute dalle politiche). La partecipazione è un concetto e un modo di concepire i rapporti tra le persone fondamentale. Serve però un approccio diverso, soprattutto da parte di chi vorrebbe un cambiamento reale. Smettiamo di fare da soli, di autocandidarci per arrivare a quelli sembrano essere i posti di comando. È preliminare il confronto e un consenso minimo su quel che si dovrà fare.
16 Luglio 2013 alle 11:26
Caro Marco,
La questione che tu poni è centrale e dirompente. Da almeno trent’anni forze potenti lavorano a creare una “democrazia oligarchica”, non potendola, almeno nei nostri paesi, crearla smaccatamente autoritaria. L’UE ne è un esempio, ma in quella direzione spinge anche la revisione costituzionale che il PDL-PD si propongono di approvare. Le forze che si muovono in senso contrario si sono fortemente indebolite. Gran parte del PD è ormai dall’altra parte, organicamente alleato in questo al PDL, anche se, certo, non tutti i dirigenti e gli elettori del PD condividono quella linea.
La battaglia che tu proponi e auspichi è dunque difficilissima. E, son d’accordo con te, non aiutano coloro che, pur animati da buoni propositi, antepongono la loro candidatura al programma e all’organizzazione di forze a partire dal sociale. Finiscono anche loro, involontariamente, per alimentare questa voglia di oligarchia che è ormai parte della nostra costituzione materiale e che si vuole imporre anche a livello formale con la manomissione della Costituzione.
Si può pensare a mettere insieme queste forze varie e disperse su obiettivi condivisi: partecipazione, lavoro, autonomia-sovranità-indipendenza. Quest’ultimo è forse il punto in cui l’articolazione è massima. Tuttavia con un po’ di buona volontà e di rispetto reciproco, un dialogo si può tentare. Poi, com’è naturale, si parlerà di candidati, di liste e di coalizioni.