Elusività del concetto di imprenditore e responsabilità sociale dell’impresa

16 Settembre 2018

[Gianfranco Sabattini]

Nonostante l’interesse nutrito nell’ambito della storia del pensiero economico per il concetto di imprenditore e di imprenditorialità, i contenuti e le rappresentazioni di tale concetto “risultano sfuggenti non appena si cerca di afferrarne la sostanza”. E’ questo il motivo per cui Giuseppe Berta, in “L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)”, compie il tentativo di catturare in termini circostanziati la determinatezza di quei “contenuti e rappresentazioni”, in considerazione del fatto che l’imprenditore e l’imprenditorialità, nella storia del modo di produzione della vita materiale, sono considerati le forze motrici del progresso economico.
Secondo Berta, nell’immaginario collettivo, l’imprenditore impersona “quella delicata combinazione di attitudini e capacità che permette di ottenere la riuscita economica, sia individualmente, sia all’interno di un’organizzazione”; l’imprenditorialità viene così fatta coincidere “con la virtù dell’intraprendenza personale, da perseguire attraverso una tenace e orgogliosa affermazione delle doti individuali, con un impegno e una dedizione rivolti a un risultato che fosse il premio tangibile”, sia sul piano dell’arricchimento, che su quello della distinzione sociale, con l’apporto di qualità e di risorse esplicitamente personali.
Questa rappresentazione dell’imprenditore risulta implicitamente caratterizzata dalla virtù che, di per sé, qualifica la sua funzione, quella di essere proteso sempre ad innovare; una propensione in parte “oscurata” nel corso del XX secolo, con l’avvento dei manager nati come alternativa e complemento dell’azione imprenditoriale, ma che è riemersa prepotentemente verso la fine dello stesso secolo, con la rivoluzione determinata dalle tecnologie dell’informazione, che hanno avuto l’effetto di “riportare in piena luce i connotati originari dell’imprenditore”; ciò ha consentito di “celebrarne la potenza creativa” e di ricuperare la considerazione dell’attività innovativa come “atto rivelatore della presenza dell’imprenditore nel processo economico”.
Perché, allora, si chiede Berta, riesce difficile catturare i contenuti e le rappresentazioni idonei a consentire di fissare, in termini univoci, il profilo dell’imprenditore? A questa domanda egli si propone di rispondere, intraprendendo “un percorso tra economia e storia”, intesa quest’ultima un senso lato, non come ricostruzione delle vicende economiche.
Secondo un’accreditata linea di pensiero della storia del pensiero economico, il merito di aver indicato nell’imprenditore il vero motore dell’attività economica va riconosciuto a Richard Cantillon, un finanziere francese vissuto a cavallo tra il Seicento e il Settecento; egli, infatti, ha inaugurato la tradizione continentale di considerare imprenditore, non tanto colui che detiene la proprietà dei mezzi di produzione, né colui che mette a disposizione il proprio lavoro, quanto colui che, organizzando nel migliore dei modi l’impiego dei fattori produttivi, ne assume la responsabilità della gestione.
Tuttavia, a parere di Berta, la definizione di imprenditore data da Cantillon sarebbe lontana “dal rigore analitico proprio dei protagonisti dell’economia politica classica”; per l’”entrepreneur” cantilloniano “non c’è posto nei grandi testi” in cui si compendia l’economia politica della tradizione inglese; ciò è testimoniato dal fatto che, in tali testi, in luogo del termine “entrepreneur”, venga usato alternativamente quello di “manufacturer”, o quello di “undertaker”, od anche quello di “projector”, privilegiando in ogni caso quello di “capitalist”. Nella visione dei classici – afferma Berta – la funzione di guida dell’attività produttiva ha scarsa importanza, mentre ciò che caratterizza il capitalista consiste nell’apporto dei fattori produttivi (ovvero nella fornitura del capitale reale).
Questo spostamento d’accento, riguardo al ruolo e alla funzione del soggetto che organizza e conduce l’attività economica, non impedisce che il ruolo e la funzione del “capitalist” della tradizione inglese coincidano con il ruolo e la funzione dell’”entrepreneur” della tradizione continentale. Sono rimasti, però, due approcci differenti alla definizione di inprenditore; perché si delineasse “qualche tacito spunto di convergenza – continua Berta – bisognerà attendere l’ultimo quarto dell’Ottocento”.
Nell’ambito dell’approccio inglese, verso la fine dell’XIX secolo, si è fatta strada l’idea di riportare al ruolo e alla funzione dell’imprenditore anche la genesi del profitto; idea che ha trovato soprattutto nelle riflessioni di Alfred Marshall la sua formulazione più compiuta, permettendo l’integrazione nella struttura del ragionamento economico dell’analisi del ruolo e della funzione dei concetti di imprenditorialità e di direzione dell’impresa; si è così rinvenuta la genesi e la destinazione del profitto nel fatto che esso rimuneri l’imprenditore, non solo perché egli coordina, secondo un approccio razionale, l’impiego del proprio capitale nell’attività produttiva, ma anche perché è colui che si accolla il rischio, “implicato nella combinazione di capitale e lavoro” per scopi produttivi, del successo o dell’insuccesso dell’attività dell’impresa.
All’inizio del Novecento, l’ipotesi della razionalità dell’agire economico e quella del rischio implicito in tale attività sono state ritenute, dall’austriaco Joseph Alois Schumpeter, insufficienti a caratterizzare l’attività imprenditoriale; secondo l’economista austriaco, la definizione dell’imprenditorialità fondata su “una convenzionale razionalità di tipo utilitaristico” era adatta solo ad un’economia statica. L’imprenditore, secondo Schumpeter, non svolge solo attività di routine, ma è anche portatore di nuove forme di azione, capaci di mutare la realtà esistente; prendendo nelle sue mani tutto ciò che concerne l’economia, l’imprenditore lo trasforma in qualcos’altro; l’attività che così pone in essere non è “una semplice capacità di adattamento, è piuttosto una volontà di trasformazione […] che assoggetta a sé la realtà per piegarla alla sua volontà”.
Con questo approccio al concetto di imprenditore, perciò, ricchezza e profitto rappresentano la misura del successo dell’uomo d’azione nel campo dell’economia. Per Schumpeter, sottolinea Berta, l’imprenditore è “un tipo umano che esalta al massimo le doti e le qualità individuali: è l’incarnazione moderna dell’individualismo”. L’agire imprenditoriale è la leva che porta l’economia fuori dal suo binario statico. Secondo l’economista austriaco, il tipo ideale di imprenditore andava individuato nel moderno “capitano d’industria”, un soggetto non riconducibile all’interno della massa degli operatori attivi nel mondo dell’attività economica.
Inoltre, per Schumpeter, l’imprenditore non era soltanto colui che fondava una nuova impresa, ma era soprattutto colui che, in virtù della sua propensione alla “distruzione creativa”, rimuoveva il modo consolidato di utilizzare i fattori della produzione, per crearne uno nuovo; l’esito della distruzione creativa schumpeteriana era il motore dello sviluppo economico e del progresso.
Con l’approfondimento della sua definizione di imprenditore innovatore, Schumpeter mostrava come non fosse necessario legare l’azione imprenditoriale alla proprietà dei mezzi di produzione e al rischio che corre l’investitore che finanzia l’impresa. Fatta chiarezza su tutti questi aspetti, l’imprenditore, secondo Schumpeter, veniva così a configurarsi come perno introno al quale ruotava l’intera economia di scambio, diventando egli l’intermediario tra i possessori di prestazioni produttive e i consumatori.
Questa caratterizzazione dell’imprenditore, formulata da Shumpeter nella fase giovanile della sua esperienza professionale (cioè all’inizio del secolo scorso), varrà a caratterizzare il suo “eroe” in termini esclusivamente individualistici, incurante – afferma Berta – delle convenzioni sociali e avverso a ogni deriva conformistica. Tuttavia, in una fase più avanzata del capitalismo, Schumpeter, dopo aver esaltato la forza dirompente dell’imprenditore innovatore, sarà costretto a riconoscere, ricorda Berta, che anche un “quadro” intermedio della direzione dell’impresa “può rivestire la funzione imprenditoriale, sebbene a rigore non venga ricompensato attraverso il profitto, ma piuttosto con uno stipendio derivante da un contratto di assunzione”.
E’ stato, questo, da parte di Schumpeter, un riconoscimento tradivo del ruolo e della funzione che la “scuola manageriale ed economico-giuridica americana” (per merito soprattutto di Frederick Taylor, Adolf Berle e Gardiner Means) ha assegnato all’imprenditore nella prima parte del XX secolo, in conseguenza della trasformazione dell’organizzazione dell’impresa verificatasi sull’altra sponda dell’Atlantico.
In America, l’innovazione è stata percepita come il prodotto dell’organizzazione, che rende superfluo se non dannoso l’apporto individuale, quando questo non sia strutturato all’interno di precisi “protocolli operativi”. Il ruolo e la funzione affidati alla direzione dell’organizzazione dell’impresa vengono così individuati nella creazione “di procedure standardizzate e formalizzate in luogo del sapere informale, appreso ‘inconsciamente attraverso l’osservazione personale’”.
Ciò implica, non solo la sostituzione della figura dell’imprenditore innovatore individualista, di schunpeterana memoria, con il management dell’impresa (i cui componenti non sono necessariamente i proprietari dei fattori produttivi), ma anche lo sfaldamento del vecchio concetto di proprietà e dell’unità dell’impresa. Questo modo di pensare ha condotto a scoprire che la “moderna corporation, la public company il cui capitale è posseduto da una massa dispersa e anonima di azionisti, [è] ‘l’istitutore dominante del mondo moderno’”.
Tale scoperta ha rappresentato un evento rivoluzionario, in quanto è valsa a “sovvertire il tradizionale assetto proprietario”, in quanto gli interessi dei tradizionali proprietari potevano continuare ad essere garantiti, facendo valere il principio secondo il quale le corporation, nella forma di società per azioni, sono al servizio, non solo del “gruppo di comando”, ma anche dell’intera comunità. Il ricupero della tutela degli interessi dei proprietari è stato infatti determinato dalla necessità che il management fosse responsabilizzato, non solo nei confronti degli “shareholders” (gli azionisti), ma anche e soprattutto nei confronti degli “stakeholders”, cioè di tutti i componenti la comunità.
Così, alla metà del Novecento, il capitalismo americano rifletterà un’immagine dell’imprenditore totalmente spersonalizzato, in cui il l’”eroe” schumpeteriano sarà sostituito dal management d’impresa; contemporaneamente, però, avrà inizio, soprattutto dopo l’esperienza della Grande Depressione, il processo di progettazione e di realizzazione di una complessa legislazione sociale volta ad introdurre una regolazione pubblica dell’attività economica; il controllo sociale del modo capitalistico di produrre, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, risulterà la forma organizzativa prevalente dei sistemi economici ad economia di mercato.
Ironia della sorte, a causa delle crisi, che per vari motivi hanno colpito le economie di mercato nel corso degli anni Settanta, il primato del management, ricorda Berta, è stato sconfitto e “l’individualismo è tornato ad essere l’unica ricetta per il successo economico”; in tal modo, ha ripreso forma uno scenario economico dominato da quello stesso individualismo che, dopo l’ammansimento degli animal spirit del capitalismo dominato dall’imprenditore distruttore creativo di Schumpeter, era stato sostituito, prima, dal managenemt e, poi, da un crescente e pervasivo controllo sociale dell’attività d’impresa.
Da un lato, il ritorno all’individualismo imprenditoriale, complici i progressi scientifici e tecnologici verificatisi nel campo delle scienze dell’informazione, ha consentito di rilanciare la crescita e lo sviluppo economico delle economie di mercato in crisi; da un altro lato, però, esso è valso anche a ristrutturare le forme di produzione capitalistiche che, con la globalizzazione, sono divenute la causa dello stato prennemante instabile del mondo economico e politico contemporaneo.
Non è possibile prevedere quanto ancora potrà reggere questa riaffermazione dell’individualismo imprenditoriale; ciò non toglie che sia quanto mai avvertita l’urgenza, nell’interesse dello stesso capitalismo, di ammansire di nuovo la sua azione, perché i suoi risultati tornino ad essere compatibili con gli interessi dell’intera comunità.

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