Eni-bond
16 Novembre 2009Piero Sanna
Vi ricordate le sconcertanti vicende dell’Innse-Presse, la storica fabbrica milanese (ex Innocenti), i cui impianti, benché altamente competitivi, hanno rischiato l’estate scorsa di esser spacchettati e rottamati?
All’origine di quel paradossale caso di schizofrenia economica vi era il fatto che in un momento di difficoltà congiunturale l’azienda era stata svenduta non ad un industriale del settore ma ad un commerciante di rottami, un imprenditore d’assalto, che a dispetto di ogni interesse sociale aveva pianificato di realizzare l’affare della sua vita chiudendo la fabbrica, vendendo i macchinari e riutilizzando i terreni per una gigantesca speculazione edilizia.
Quella fabbrica, com’è noto, si è poi salvata, ma solo grazie a una fortissima e intelligente mobilitazione sindacale culminata nella spettacolare protesta dei quattro operai asserragliatisi su un carroponte sospeso a decine di metri dal suolo. Fu il convergere di vasti settori dell’opinione pubblica (dal Manifesto al Sole24ore) sulla necessità di puntare sul rilancio produttivo dell’Innse a a spingere definitivamente le istituzioni a sospendere le procedure coattive e ad assegnare la fabbrica ad un vero imprenditore metalmeccanico.
Da qualche tempo le vicende del petrolchimico di Porto Torres presentano non poche inquietanti somiglianze con quelle dell’Innse.
Certo, l’Eni non è il commerciante di rottami dell’Innse. Eppure la scarsità di risorse che l’Eni e le società collegate destinano agli impianti di Porto Torres non trovano giustificazione se non all’interno di una calcolata strategia di dismissioni che rinvia all’ormai pluriennale disimpegno del gruppo multinazionale dall’industria petrolchimica, in Sardegna come nella Penisola.
Non è questa la sede per analizzare le molteplici cause della crescente marginalità delle produzioni petrolchimiche italiane nel quadro delle nuove strategie economico-finanziarie e commerciali che hanno segnato la recente trasformazione dell’Eni in un’«energy-company» ormai presente, come recita una scheda aziendale, in ben 70 paesi al mondo e impegnata a tutto campo in «attività di ricerca, produzione, trasporto, trasformazione e commercializzazione di petrolio e gas naturale».
Ma la comunità regionale e quella nazionale possono permettersi di perdere i pezzi più significativi delle loro economie industriali soltanto perché le attività produttive su cui sono imperniati non assicurano i lauti profitti che l’Eni conta di ricavare altrove e in altro modo? E nel caso della zona industriale di Porto Torres, l’intera società sarda può rinunciare a difendere un patrimonio industriale tuttora valido che costituisce non solo un ganglio vitale dell’apparato economico isolano ma anche uno dei pochi pilastri dell’economia del Nord – Sardegna? Ma si è davvero pensato alle ripercussioni culturali che si determinerebbero (nella società e perfino nell’Università, dove sono presenti un Corso di laurea e un eccellente Dipartimento di chimica) con la dispersione delle maestranze altamente qualificate del petrolchimico e con la conseguente perdita del prezioso patrimonio di esperienze e competenze tecniche che esse rappresentano? E si può immaginare che le attività di bonifica dei siti inquinati possano sostituire il ruolo delle attività produttive? E possiamo davvero pensare che dalla manutenzione dei serbatoi di stoccaggio dei prodotti petroliferi possa scaturire un loro utilizzo su larga scala senza entrare in piena rotta di collisione con le compatibilità ambientali del parco dell’Asinara? E una volta che si bonificheranno i siti si potrà davvero sperare in una mirata riqualificazione delle attività produttive se nel frattempo non si è cercato di tenere proficuamente in funzione le infrastrutture industriali? E come si può convincere un’opinione pubblica ferita da tanti anni d’irresponsabili disastri ambientali che una chimica moderna è possibile anche in Sardegna, quando constatiamo invece che ancora non decollano quei controlli rigorosi e indipendenti che l’Azienda regionale per l’ambiente Sardegna avrebbe dovuto già garantire?
Su un punto, tuttavia, sia i tecnici e i ricercatori universitari, sia i rappresentanti sindacali e diversi dirigenti industriali continuano a convergere: il petrolchimico di Porto Torres, integrato con il ciclo cloro-soda dei moderni impianti della Syndial (Assemini) e dell’ex Ineos-Vinyls (Porto Torres), migliorerebbe notevolmente la sua efficienza se beneficiasse di alcuni investimenti essenziali e di adeguate strategie industriali.
Si collegano a questa basilare considerazione due problemi cruciali che toccano alcuni nervi scoperti delle politiche dell’Eni: 1) l’opportunità di rivolgersi ad E.On, subentrato ad Endesa, per negoziare, nel quadro della nuova centrale elettrica a ciclo ipercritico prevista a Fiumesanto, la fornitura dell’energia termica necessaria per il funzionamento del petrolchimico: l’accordo presenterebbe notevoli reciproche convenienze e consentirebbe all’Eni di fare a meno della sua costosa e assai inquinante centrale termica; 2) la necessità di programmare la ripresa di tutte le linee produttive della zona industriale, compresi gli impianti del cumene e del fenolo, per ottimizzare la resa del cracking, il cuore del sistema, il cui equilibrio produttivo imporrebbe all’Eni di favorire l’integrazione produttiva dei due moderni impianti ex Ineos-Vinyls (produzioni del VCM e del pregiato PVC- emulsione), ora sotto amministrazione controllata e in attesa di un nuovo acquirente.
Ma come convincere un interlocutore recalcitrante, com’è l’Eni, ad assumersi per intero le sue responsabilità e a prestare la sua collaborazione ad altri operatori laddove non intenda assumersele? Come indurlo ad assicurare le politiche industriali che permettano a filiere produttive economicamente valide di tenersi al passo con i nuovi standard tecnologici e con l’evoluzione dei mercati?
La capacità contrattuale dipende dai rapporti di forza: la mobilitazione sindacale di quest’estate ha ottenuto risultati importanti; restano però decisivi il ruolo delle classi dirigenti e la sensibilità dell’opinione pubblica, della politica, delle istituzioni.
L’Eni è un’enorme spa, in cui le uniche rilevanti partecipazioni azionarie appartengono al Ministero dell’Economia (oltre il 20%) e alla Cassa depositi e prestiti spa (quasi il 10%).
Certo, il bandolo della matassa è nelle mani del governo nazionale, ma la compattezza del fronte sindacale, delle istituzioni locali e della società sarda sono il presupposto indispensabile di un’efficace vertenza con Roma. O si riprende a praticare anche in campo nazionale una sana politica industriale, come il governo Soru aveva ripreso a fare in Sardegna, o saremo travolti dai dissesti sociali della globalizzazione e dalle deformazioni speculative dei mercati.