Far finta di essere sardi
16 Giugno 2014Mario Cubeddu
Lotta di classe nell’agricoltura sarda. Industriali dell’agroalimentare contro i produttori di carne, formaggio, patate, pomodori. La questione è questa: in Sardegna c’è poca, pochissima produzione. La Sardegna importa l’80% degli alimenti che consuma, con una spesa annuale di 2,2 miliardi di euro. Allo stesso tempo il viaggiatore che attraversi le pianure e le colline dell’isola può constatare che molto raramente esse sono coltivate: solo greggi di pecore e qualche raro armento di vacche dai colori vari, dal rosso della modicana al grigio e al bruno degli incroci svizzeri. Da quando esiste la regione sarda decenni di “sviluppo”, miliardi e miliardi di investimenti, hanno prodotto nell’agricoltura sarda l’abbandono del territorio e il deserto produttivo. La cerealicoltura è stata distrutta, in parte per ragioni inevitabili, in parte per i misteri delle scelte di mercato e della politica agricola europea. Se è comprensibile che le colline rocciose, su cui mio padre coltivava grano sino agli anni Sessanta, siano state lasciate al lentischio, al mirto, alla roverella e all’olivastro, non si capisce cosa sia successo nelle pianure irrigate in cui nel corso dei decenni scorsi potevi osservare l’alternarsi frenetico della colza, del girasole, delle erbe spontanee, del famigerato set aside (settassai dicevano i proprietari, stupiti prima, e felici poi, che si venisse pagati per lasciare il terreno incolto), tutti i modi con cui in nostri agricoltori venivano convinti alla non produzione e all’uscita dal mercato. La viticoltura che si era estesa in collina e in pianura veniva in buona parte abbandonata, i diritti di impianto venduti, le cantine sociali che erano sorte in tanti paesi venivano chiuse. Decine di migliaia di persone dovevano cercarsi un altro lavoro nell’indifferenza generale, come se la crisi occupazionale del mondo agricolo, diversamente da quel che avveniva e avviene negli altri settori, appartenesse al processo naturale e non alle responsabilità dell’uomo. Oggi che si fa gran vanto della qualità dei vini sardi, non si aggiunge che anche questo settore è stato drasticamente ridimensionato. Le produzioni agricole specializzate si sono ricavate spazi ridotti in alcuni settori, ma la Sardegna importa gran parte della frutta e delle verdure che consuma. L’allevamento bovino non è riuscito a fare il salto di qualità che lo doveva rendere capace di competere con la produzione delle regioni più ricche. La politica europea ha privilegiato i più forti, condannando alla marginalità e a una progressiva estinzione i settori più deboli. In Sardegna il mercato locale del latte e dei suoi derivati è stato conquistato da una piccola enclave di stampo continentale come quella di Arborea. Accanto a un fortissimo sostegno pubblico, la realtà produttiva innestata nella piana bonificata di Sassu ha potuto beneficiare delle capacità di lavoro e di cooperazione dei veneti immigrati e dei pochi sardi assegnatari delle fattorie di Mussolinia. L’allevamento ovino ha invaso in gran parte della Sardegna le campagne abbandonate dai contadini. In questo settore, accanto ad aziende moderne, vi è una miriade di piccoli allevatori che continuano un modello di produzione e di vita che sembra essere cambiato poco rispetto a qualche millennio fa, nonostante che i pick up abbiano sostituito l’asino e il cavallo. Intreccio di modernità e arretratezza, con i pastori senza terra che portano al pascolo gli animali lungo le strade, negli oliveti, nei terreni comunali, che ricavano il loro reddito dalla produzione di un latte trasformato in un formaggio chiamato pecorino romano, in buona parte venduto negli Stati Uniti, l’allevamento ovino è l’unico capace di rifornire il mercato sardo e di esportare. Pecorino romano, appunto, paradosso storico e simbolo della condizione sarda contemporanea. Nonostante tutto questo, la terra rimane per la Sardegna una risorsa fondamentale. Con la resa dei conti a cui è arrivata un’industrializzazione artificiosa, prodotto di una cattiva politica, il settore agricolo mantiene importanti prospettive che potrebbero autorizzare i sardi ad affrontare il futuro con un minore pessimismo. C’è grande richiesta di prodotti sardi, perché l’isola e i suoi abitanti danno l’impressione di autenticità, il suo territorio ha conservato elementi fortissimi di biodiversità che lo decorano, lo abbelliscono, lo impreziosiscono. Il consumatore richiede alimenti ottenuti con il minimo spreco di energia per il trasporto e la collocazione sul mercato. La richiesta di prodotti agricoli dovrebbe essere quindi superiore all’offerta da parte dei produttori, questi dovrebbero vendere con facilità e spuntare prezzi buoni. Questa dinamica dovrebbe determinare un progressivo e continuo aumento della produzione, facile da ottenere, vista la grande disponibilità di terre coltivabili e i progressi delle tecniche di coltura. Invece così non è; molto spesso il genuino e autentico prodotto sardo rimane invenduto e la crisi del settore si accentua. Gli industriali dell’agroalimentare sembrano preferire l’acquisto a basso prezzo di materia prima in ogni parte del mondo, piuttosto che pagare qualcosa in più il prodotto agricolo sardo. E non si accontentano di questo. Essi pretenderebbero che i culurgiones riempiti di patate polacche, la salsiccia fatta con carni tedesche, la verdura importata dal Cile e dal Perù, siano certificati al consumatore come un prodotto “tipicamente sardo” solo perché passato nelle loro mani. Che spesso non sono neppure mani “sarde”. Si può vendere come sardo un olio che di sardo non ha nulla. Eppure non sarebbe difficile produrre la quantità di patate che serve a confezionare un prodotto interamente sardo come i “culurgionis”, dalla materia prima alla confezione ultima: è stato calcolato che per riempire tutti i culurgiones prodotti nell’isola basterebbero 16 ettari di superficie coltivate a patate. Perché nessun contadino sardo ci ha pensato? Perché il suo prodotto rimarrebbe invenduto e l’industriale continuerebbe a comprare le patate altrove. E qui arriviamo alla questione di fondo: è possibile che una terra non votata all’industria ma al turismo, secondo le considerazioni di tutti i politici italiani e dei loro dipendenti sardi, possa non avere un agroalimentare forte e di qualità? Diversamente, cosa vendi al turista, se non lo spazio della speculazione edilizia, terreno su cui ai sardi risulta impossibile competere con la molteplicità delle mafie italiane e internazionali? Anche nella produzione agroalimentare, quindi, la Sardegna sembra percorrere la strada del far finta di essere quello che non è, del presentarsi al mondo con una o più maschere che si inventa per vestirsi con panni altrui. I prodotti tipici sardi realizzati con materie prime prodotte fuori dalla Sardegna, magari anche lavorati fuori dall’isola, come è spesso facile constatare, porterebbero anche questo settore alla catastrofe cui sono andati incontro altri settori produttivi.
16 Giugno 2014 alle 18:41
Condivido le considerazioni svolte nell’articolo e credo che la grande questione programmatica sia proprio quella di strutturare un modello produttivo che non snaturi le vocazioni produttive sarde e che porti la Sardegna ad incrementare gli indici di autosufficienza in agricoltura. Anche l’idea di legare turismo e agricoltura è da sostenere (io la sostengo dagli anni ottanta!). Inoltre, pongo forte l’accento sulla convenienza/utilità a non perdere le professionalità nel tempo acquisite nelle diverse pratiche agricole: anche quelle rappresentano ricchezza. Come diceva il grande Cubeddu, parafrasando Diogene, “su pesu a sa terra pius gravante est su pesu de s’omine ignorante”!.
17 Giugno 2014 alle 00:08
Penso che sia facile scaricare le colpe sempre sugli altri. Un pò di autocritica farebbe anche bene. Quasi tutta la frutta e verdura che si consuma in Sardegna arriva da fuori, dall’Emilia, dall’Olanda e dalla Spagna. Frutta e verdura raccolta ancora verde e non matura perché deve compiere grandi distanze e che quindi non ha alcun gusto. La Sardegna ha il territorio per coltivare gli ortaggi, potrebbe essere autosufficiente in quanto il numero degli abitanti è limitato rispetto all’intera superficie. E’ vero che dobbiamo considerare le montagne, ma la superficie coltivabile credo che potrebbe soddisfare le esigenze di 1.500.000 abitanti. Purtroppo ha predominato la monoco(u)ltura del pascolo per cui nei campi pianeggianti e irrigui come quelli che dal Sologo di Dorgali- Lula si estendono verso la Baronia non si vede un orto o un agrumeto. Forse anche perché si stanno perdendo le competenze di coltivazione. Sarebbe bello che anche a Dorgali sorgessero delle aziende familiari in cui comprare direttamente i pomodori e gli altri ortaggi come ho visto che vi sono nella zona di San Sperate.
17 Giugno 2014 alle 12:49
e quindi,come se ne esce? Se la Sardegna è stata destianata al turismo,non potrebbe essere un’idea,unire uno all’altro?Cioè,voglio dire incrementare il turismo ma anche l’agricoltura,ergo dare incentivi a chi volesse aprire agriturismi,dove si deve coltivare la terra e offrire i propri prodotti?adesso vanno tanto di moda!sarebbe troppo poco? Forse,ma sarebbe un inizio!
19 Giugno 2014 alle 18:17
Mario Cubeddu descrive molto bene la situazione economica e produttiva disastrosa della sardegna,dando le responsabilità maggiori ai governi passati e presenti: trovo del vero in questo; ma è altrettanto vero ciò che dice Gaetano Solano: un pò di autocritica farebbe bene. Io dico che la maggioranza dei sardi è per la conservazione del territorio ed è contraria a qualsiasi innovazione, lo dimostra il fatto che si trovano uniti solo per opporsi a qualsiasi opera che modifichi l’ambiente, senza pensare minimamente ai possibili risvolti economici.
21 Giugno 2014 alle 11:37
C’è una retorica del lamento e una retorica dell’autocritica. Sarà anche giusto dire agli africani (e ai sardi): ma rimboccatevi le maniche, cosa state sempre a lamentarvi! Non si possono cancellare secoli di dipendenza coloniale, con i suoi meccanismi perversi. La monocultura pastorale, come tutte le altre monoculture, nasce da una distribuzione dei ruoli all’interno del mercato capitalistico. In casa mia si è coltivato grano, allevate mucche, prodotto olio. Ebbene: nonostante questi prodotti vengano largamente importati perchè scarseggiano in Sardegna, il problema era sempre quello di riuscire a vendere, collocare sul mercato senza perderci. In questo grandissima responsabilità ha la politica regionale, il cui livello, per quanto riguarda l’attività che svolge, il contributo al bene comune, l’attenzione ai problemi dei sardi, è pari alla moralità, cioè bassissimo, come dimostrato dalla vicenda tristissima dei fondi dei gruppi in consiglio regionale.