Fare l’euro è stato un errore ma non possiamo tornare indietro
1 Febbraio 2016Intervista di Nick Buxton a Yanis Varoufakis
In un’estesa intervista l’ex ministro greco delle finanze Yanis Varoufakis sostiene che lo Stato-nazione è morto e che la democrazia nell’UE è stata sostituita da una tossica depoliticizzazione algoritmica che, se non contrastata, condurrà alla depressione, alla disintegrazione e forse alla guerra in Europa. Varoufakis sollecita il lancio di un movimento paneuropeo per democratizzare l’Europa, per salvarla prima che sia troppo tardi. Intervista di Nick Buxton per il Transnational Institute (TNI).
Quali consideri le maggiori minacce alla democrazia oggi?
La minaccia alla democrazia è sempre stata il disprezzo che il sistema prova per essa. La democrazia, per sua stessa natura, è molto fragile e l’antipatia nei suoi confronti da parte del sistema è sempre estremamente pronunciata. Il sistema ha sempre cercato di svuotarla.
Questa storia risale all’antica Atene, ai primi tentativi di dar vita ad una democrazia. L’idea che i poveri, che erano la maggioranza, potessero controllare il governo era sempre contestata. Platone scrisse La Repubblica come trattato contro la democrazia, argomentando a favore di un governo degli esperti.
Analogamente nel caso della democrazia statunitense, se si guarda ai documenti federalisti e ad Alexander Hamilton, si vedrà che c’era un tentativo di contenere la democrazia, non di rafforzarla. L’idea che stava dietro alla democrazia rappresentativa era che i mercanti rappresentassero il resto della popolazione perché la plebe non era considerata all’altezza del compito di decidere su importanti questioni di Stato.
Gli esempi sono innumerevoli. Si consideri soltanto quello che è successo con il governo Mossadeq in Iran negli anni ’50 o con il governo Allende in Cile. Ogni volta che le urne producono un risultato che non piace al sistema, il processo democratico è rovesciato oppure è minacciato di essere rovesciato.
Dunque, se mi chiedi chi sono e sono sempre stati i nemici della democrazia, la risposta è: i grandi poteri economici.
Quest’anno pare che la democrazia sia sotto attacco più che mai da parte di un potere radicato. La tua percezione è questa?
Questo è un anno speciale a tale riguardo poiché abbiamo avuto l’esperienza della Grecia, dove nelle elezioni la maggioranza dei greci ha deciso di sostenere un partito anti-establishment, SYRIZA, che è salito al potere “dicendo la verità al potere” e sfidando l’ordine costituito in Europa.
Quando la democrazia produce ciò che il sistema ama sentire, allora la democrazia non è una minaccia, ma quando produce forze anti-sistema e rivendicazioni, è allora che la democrazia diventa una minaccia. Siamo stati eletti per sfidare la troika dei creditori ed è stato a quel punto che la troika ha affermato con assoluta chiarezza che alla democrazia non può essere consentito di cambiare nulla.
Sulla base del tuo periodo da ministro greco delle finanze, che cosa ti ha rivelato l’esperienza a proposito della natura della democrazia e del potere? Quali sono le cose che ti hanno sorpreso?
Ci sono andato con gli occhi bene aperti. Non avevo illusioni. Ho sempre saputo che le istituzioni dell’Unione europea a Bruxelles – la Banca centrale europea e altre – erano state create progettualmente come zone aliene alla democrazia. Non è che un deficit di democrazia si è improvvisamente insinuato nell’UE; essa è stata creata principalmente come un cartello dell’industria pesante, che ha finito poi per cooptare anche gli agricoltori, principalmente gli agricoltori francesi. Ed è sempre stata amministrata come un cartello; non è mai stata intesa come l’inizio di una repubblica o di una democrazia in cui “noi, il popolo” dettiamo legge.
Riguardo alla tua domanda, mi hanno colpito un paio di cose. La prima è la sfacciataggine con cui mi è stato chiarito che la democrazia era considerata irrilevante. Nella primissima riunione dell’Eurogruppo a cui ho partecipato, quando ho cercato di fare un’affermazione che non pensavo sarebbe stata contestata – cioè che rappresentavo un governo neo-eletto il cui mandato andava rispettato in una certa misura, che questo avrebbe dovuto alimentare un dibattito su quali politiche economiche dovessero essere applicate alla Grecia, ecc. – sono rimasto attonito nel sentire il ministro delle finanze tedesco dirmi, alla lettera, che alle elezioni non può essere consentito di cambiare una politica economica stabilita. In altri termini, che la democrazia va bene fintanto che non minaccia di cambiare nulla! Anche se mi aspettavo che la musica fosse quella, non ero preparato a sentirmela suonare così brutalmente.
La seconda cosa per la quale dovrei dire che non ero preparato, per parafrasare la famosa espressione di Hannah Arendt sulla banalità del male, era la banalità della burocrazia. Mi aspettavo che i burocrati di Bruxelles fossero molto sprezzanti della democrazia, ma mi aspettavo che fossero garbati e tecnicamente competenti. Invece sono rimasto sorpreso nel constatare quanto erano banali e, da un punto di vista tecnocratico, quanto erano scadenti.
Come funziona dunque il potere nell’Unione europea?
La cosa principale da osservare riguardo all’UE è che l’intera attività di Bruxelles è basata su un processo di depoliticizzazione della politica che consiste ne prendere quelle che sono essenzialmente decisioni profondamente e irrevocabilmente politiche e forzarle nel regno di una tecnocrazia dominata dalle regole, un approccio algoritmico. È la pretesa che le decisioni riguardo alle economie in Europa siano semplicemente problemi tecnici che hanno bisogno di soluzioni tecniche decise da burocrati che seguono regole prestabilite, proprio come un algoritmo.
Così, quando si cerca di politicizzare il processo, si finisce con un genere particolarmente tossico di politica. Per farti solo un esempio, nell’Eurogruppo stavamo discutendo la politica economica relativa alla Grecia. Il programma che avevo ereditato come ministro delle finanze fissava un obiettivo di avanzo primario del 4,5 per cento del PIL, che consideravo esageratamente elevato. E lo stavo contestando su basi puramente tecniche, di teoria macroeconomica.
Così mi è stato immediatamente chiesto quale avrei preferito fosse l’avanzo primario. Ho cercato di fornire una risposta onesta, affermando che doveva essere considerato alla luce di tre fattori e dati chiave: gli investimenti in rapporto ai risparmi, le scadenze del rimborso del debito e il deficit o avanzo di partita corrente. Ho cercato di spiegare che se volevamo far funzionare il programma greco dopo cinque anni di fallimento catastrofico che avevano condotto alla perdita di quasi un terzo del reddito nazionale avremmo dovuto considerare queste tre variabili insieme.
Ma mi è stato detto che le norme affermano che dovevamo considerare un unico numero. Così ho replicato: «E allora? Se c’è una norma sbagliata dovremmo cambiarla». La risposta è stata: «Una norma è una norma!». E io ho rimbeccato affermando: «Sì, questa è una norma, ma perché dovrebbe essere una norma?». A quel punto ho ricevuto una risposta tautologica: «Perché è la norma». Questo è quel succede quando si abbandona un processo politico a favore di un processo dominato da norme: finiamo con un processo di depoliticizzazione che porta a politiche tossiche e ad una cattiva economia.
Un altro esempio che vorrei farti è che, a un certo punto, stavamo discutendo del programma greco e dibattendo la formulazione di un comunicato che doveva uscire riguardo a quella riunione dell’Eurogruppo. Io ho detto: «D’accordo, citiamo la stabilità finanziaria, la sostenibilità fiscale – tutte cose che la troika e altri volevano fossero dette – ma parliamo anche della crisi umanitaria e del fatto che ci stiamo occupando di cose come una fame diffusa». La risposta che ho ricevuto è stata che ciò sarebbe stato “troppo politico”. Che non possiamo avere simili “espressioni politiche” nel comunicato. Così i dati sulla stabilità finanziaria e sull’avanzo di bilancio andavano bene, ma dati sulla fame e sul numero di famiglie senza accesso all’elettricità e al riscaldamento in inverno non andavano bene perché erano “troppo politici”.
Ma tutto questo sforzo di depoliticizzazione in realtà è profondamente politico, visto che il neoliberismo e un processo politico.
Ma loro non la pensano così. Si sono convinti che esistono certe regole che riguardano variabili ed equazioni naturali e che tutto il resto non c’entra. E così che la pensano.
È sempre stata condannata al fallimento o ci sono stati dei processi o degli eventi particolari che hanno minato la democrazia in Europa, come il Trattato di Maastricht?
Quello che sto per condividere è più o meno il tema del mio libro, che uscirà ad aprile ed è intitolato And the weak suffer what they must? Europe’s crisis, America’s economic future (‘E il debole subisca quel che deve subire? La crisi dell’Europa, il futuro economico degli Stati Uniti’). Il titolo deriva dall’antico greco Tucidide e dal dibattito da lui riportato tra i generali ateniesi e i melii, che furono infine sconfitti dai generali.
Il punto che sto sostenendo è il seguente: diversamente dagli Stati statunitense, tedesco o britannico che sono emersi da secoli di evoluzione, attraverso i quali lo Stato si è evoluto come strumento funzionale per risolvere diversi generi di conflitti sociali, l’UE ha seguito una strada diversa. Ad esempio, se si prende lo Stato britannico, la gloriosa rivoluzione del 1688 è stata incentrata sul porre limiti al potere della monarchia in conseguenza degli scontri tra i baroni e il re; le riforme successive sono state il risultato di conflitti tra gli aristocratici ed i mercanti, poi tra i mercanti e la classe operaia. È così che si evolve uno Stato normale ed è così che nascono le democrazie liberali.
Ma l’UE non si è affatto evoluta così. La sua formazione, come dicevo prima, si è avuta nel 1950 con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che era fondamentalmente un cartello come l’OPEC. E Bruxelles era il quartier generale di tale cartello. Era qualcosa di molto diverso da uno Stato. Non aveva a che fare con la mitigazione di scontri tra classi e gruppi sociali. L’intera ragion d’essere di un cartello consiste nello stabilizzare i prezzi e limitare la concorrenza tra i propri membri.
La sfida per Bruxelles consisteva inizialmente nello stabilizzare i prezzi del carbone e dell’acciaio e poi quelli di altre materie prime e merci, in un cartello che copriva diversi regimi monetari e perciò sei rapporti di cambio. Senza rapporti stabili di cambio tra le monete di tale unione sarebbe stato impossibile stabilizzare i prezzi di un cartello di portata europea nei suoi sei membri iniziali. Finché c’era il sistema di Bretton Woods (che legava i rapporti di cambio al dollaro, il cui valore era fissato a 35 dollari l’oncia), mantenere allineate le monete europee era automatico. Ma quando quel sistema saltato per mano del segretario al Tesoro statunitense John Connally e di altri, nel 1971, i rapporti di cambio dei diversi paesi europei sono impazziti. Il marco della Germania ha cominciato a salire, la lira italiana ha cominciato a scendere, mentre il franco francese lottava per evitare lo stesso destino della lira. Ciò ha generato enormi forze che potevano fare a pezzi l’UE. Bruxelles non era più in grado di stabilizzare il suo cartello. Ed è qui che è emersa la necessità di una moneta comune.
Dai primi anni ’70 ci sono stati vari tentativi falliti di sostituire il sistema dei cambi fissi, che gli statunitensi avevano gestito sino ad allora, con un sistema europeo. Il primo fu il “serpente monetario europeo” nel 1972; negli anni ’90 abbiamo avuto ovviamente il Sistema monetario europeo e poi, infine, tra il 1992 ed il 1993, è stato introdotto l’euro con il Trattato di Maastricht, che ha legato monetariamente vari Stati europei sotto una singola valuta, una sola moneta.
Ma nel momento in cui hanno fatto ciò (senza disporre di alcun modo per gestire politicamente questa area monetaria), improvvisamente il processo di depoliticizzazione della politica (che era sempre stato parte integrante dell’Unione europea) è divenuto estremamente potente e ha cominciato a distruggere la sovranità politica.
Una delle poche persone che aveva capito bene questo non era di sinistra, bensì di destra. È stata Margaret Thatcher che ha guidato l’opposizione alla moneta unica e ne ha di fatto espresso molto chiaramente i pericoli. Io mi sono opposto alla Thatcher su tutto il resto, ma su questo aveva ragione lei. Diceva che chi controlla la moneta, la politica monetaria ed i tassi d’interesse, controlla la politica dell’economia sociale. La moneta è politica e può soltanto essere politica e qualsiasi tentativo di depoliticizzarla e di trasferirla ad un branco di burocrati irresponsabili di Francoforte (dove ha sede la Banca centrale europea) costituisce, in effetti, un’abdicazione della democrazia.
Perché la Thatcher è stata la sola voce d’opposizione considerato che ciò proteggeva gli interessi neoliberisti di cui lei era una forte sostenitrice?
La Thatcher era una conservatrice, una Tory. Pur essendo una pioniera del neoliberismo, credeva anche nella sovranità parlamentare e nel controllo del processo politico. Per lei il neoliberismo era un processo politico in cui credeva, ma per lei era ancora importante che il parlamento britannico controllasse la politica del neoliberismo. Non c’era alcun parlamento nell’eurozona; l’area euro non ha alcun parlamento. Il Parlamento europeo è una barzelletta; non opera da vero parlamento. È, al meglio, una simulazione di un parlamento, non un parlamento reale, perciò a una conservatrice inglese, per la quale la legittimazione della democrazia deriva dalla legittimazione del potere sovrano, dal parlamento, l’euro appariva come un’aria monetaria destinata ad avvizzire e morire.
Curiosamente uno dei miei maggiori sostenitori quando ero ministro delle finanze greco è stato un ministro della Thatcher e già cancelliere dello scacchiere, Norman Lamont. Siamo addirittura diventati amici. Quello che abbiamo in comune è una dedizione alla democrazia. Abbiamo idee molto diverse su quali politiche andrebbero messe in atto come parte della politica democratica, ma è rimasto scioccato anche lui per il modo in cui un branco dirigenti non eletti ha gestito le politiche fiscali e monetarie della Grecia e per come hanno raso al suolo la sua economia.
Dunque, visto che il Regno Unito è rimasto fuori dall’euro, è influenzato dalle politiche dell’eurozona?
Beh, come sappiamo la Gran Bretagna sta attraversando la prima fase di una campagna per un referendum sull’adesione all’UE. È un confronto molto emotivo. Io ritengo che sia stato magnifico per i britannici stare fuori dall’euro, un colpo di fortuna. Ma, detto questo, la loro economia è completamente determinata dalla prigione dell’eurozona e dunque l’idea che possano sottrarsi alla sua influenza votando per l’uscita dall’UE è eccessivamente ottimistica. Non possono uscire. Ora, i conservatori britannici che appoggiano l’uscita dall’UE sostengono di non avere bisogno dell’Unione europea; che possono avere il mercato unico senza la camicia di forza di Bruxelles. Ma questa è una tesi fortemente dubbia, poiché il mercato unico non può essere immaginato senza una protezione comune dei lavoratori, degli strumenti comuni per prevenire lo sfruttamento dei lavoratori o dei parametri comuni sull’ambiente o l’industria. Dunque l’idea che si possa avere il mercato unico senza unione politica si scontra con la realtà politica che il solo modo per avere il libero scambio di questi tempi è avere leggi comuni sui brevetti, sui parametri industriali, sulla disciplina della concorrenza, ecc. E come si possono avere leggi simili se non c’è il controllo di qualche genere di istituzione o di processo democratico che si applichi a ogni giurisdizione? Dunque, se si rifiuta la possibilità di un’Unione europea democratizzata, si rifiuta la possibilità di un parlamento britannico sovrano e si finisce per avere degli accordi commerciali atroci, come il TTIP.
Dove risiede, allora, il potere in Europa?
Questa è una domanda interessante. A prima vista le sole persone potenti in Europa sono Mario Draghi, capo della Banca centrale europea, e Angela Merkel, la cancelliera tedesca. Ma, detto questo, neppure loro sono poi tanto potenti. Ho visto Mario Draghi apparire estremamente frustrato nelle riunioni dell’Eurogruppo per ciò che veniva detto, per la sua stessa impotenza, perché doveva fare delle cose che pensava fossero orribili per l’Europa. Al tempo stesso, Angela Merkel si sente chiaramente accerchiata dalle richieste del suo stesso parlamento, del suo partito, circa la necessità di mantenere un tipo di modus vivendi con i francesi su cui lei non è d’accordo.
Dunque, la risposta alla tua domanda è che siamo riusciti a costruire un mostro in Europa, dove l’eurozona è supremamente potente come entità, ma in nessuno ha veramente il controllo. Le istituzioni e le regole che sono state poste in essere al fine di conservare l’equilibrio politico che ha avviato l’intero progetto dell’euro paralizzano qualunque attore che ha qualcosa a che fare con la legittimazione democratica.
Ma questo processo non ha dato grande potere ai mercati finanziari?
I mercati finanziari non hanno più potere in Europa di quanto ne abbiano negli Stati Uniti o altrove.
Torniamo al 2008. In quell’anno, dopo anni di sperperi del settore finanziario e di creazione criminale di credito da parte sua, le istituzioni finanziarie sono implose ed i capitani della finanza si sono rivolti ai governi e hanno detto loro: «Salvateci». E l’abbiamo fatto, trasferendo enormi somme dai contribuenti alle banche. Questo è successo negli USA ed in Europa; non ci sono state differenze al riguardo.
Il problema è che l’architettura dell’UE, e in particolare dell’euro, era così scadente che questo massiccio trasferimento di denaro dai contribuenti, e specialmente dai settori più deboli della società, alle banche non è stato sufficiente a stabilizzare il sistema finanziario.
Lascia che ti faccia un esempio. Paragoniamo il Nevada con l’Irlanda. Il loro clima può essere molto diverso, ma sono entrambi di dimensioni uguali in termini di popolazione e hanno economie simili. Entrambe le economie sono basate sulle proprietà immobiliari, sul settore finanziario, sull’attirare imprese in base a bassissime imposte sugli utili. Dopo il 2008 entrambe le economie sono cadute in una profonda recessione, che ha colpito principalmente il settore immobiliare e l’industria delle costruzioni.
La differenza sta nel modo in cui sono stati in grado di reagire. Immagina che le zone del dollaro USA fossero state costruite allo stesso modo dell’eurozona. Allora lo Stato del Nevada avrebbe dovuto trovare fondi per salvare le banche e anche per pagare le indennità di disoccupazione dei lavoratori dell’edilizia, e senza l’aiuto della Federal Reserve. In altre parole il Nevada sarebbe dovuto andare col cappello in mano a chiedere prestiti al settore finanziario. Considerato che gli investitori avrebbero saputo che il governo del Nevada non aveva una banca centrale a sostenerlo, o non gli avrebbero concesso prestiti oppure non lo avrebbero finanziato a tassi d’interesse ragionevoli. Così il Nevada sarebbe finito in bancarotta e lo stesso sarebbe successo alle sue banche e la gente del Nevada avrebbe perso le indennità di disoccupazione o i servizi sanitari o dell’istruzione. Dunque immagina, allora, che lo Stato si fosse recato col cappello in mano dalla Federal Reserve a chiedere aiuto. E immagina che la Federal Reserve gli avesse detto: «Vi concederemo il salvataggio e vi presteremo fondi a condizione che riduciate i salari, le pensioni e le indennità di disoccupazione del 20 per cento». Ciò avrebbe consentito allo Stato del Nevada di onorare i pagamenti a breve, ma l’austerità e la riduzione dei redditi e delle pensioni, ecc. avrebbero ridotto le entrate del Nevada e aumentato il suo debito relativo ai prestiti di salvataggio in misura tale che il Nevada sarebbe imploso. Se ciò fosse successo nel Nevada, sarebbe successo in Missouri, in Arizona, ecc., avviando un effetto domino in tutti gli Stati Uniti.
Dunque è questo che sto dicendo. Non c’è alcuna differenza in termini dell’importanza del settore finanziario e della sua tirannide sulla democrazia tra gli Stati Uniti e l’Europa, ma la differenza è che negli USA c’è un insieme di istituzioni che sono meglio capaci di gestire crisi come queste e di evitare che si trasformino in una crisi umanitaria. Gli statunitensi hanno appreso le loro lezioni negli anni ’30. Il New Deal mise in atto istituzioni che agirono come ammortizzatori, mentre in Europa siamo ancora dove eravamo nel 1929. Stiamo permettendo che questa austerità competitiva distrugga un paese dopo l’altro fino a quando l’Unione europea non si rivolgerà contro sé stessa.
Dunque è ora di sostenere un’uscita dall’euro? Ritornare a una moneta nazionale non darà almeno una migliore opportunità di accountability democratica?
Questa naturalmente è una battaglia che ho in corso con i miei compagni in Grecia. Sono cresciuto in un’economia capitalistica periferica piuttosto isolata, con una nostra moneta, la dracma, e un’economia con quote e dazi che impediva il libero flusso di merci e capitali. E posso garantirti che era una Grecia parecchio tetra; non era di certo un paradiso socialista. Dunque l’idea tornare allo Stato-nazione per creare una società migliore per me è sciocca e implausibile.
Ora, io vorrei che non avessimo creato l’euro, vorrei che avessimo conservato le nostre monete nazionali. È vero che l’euro è stato un disastro. Ha creato un’unione monetaria progettata per fallire e che ha assicurato sofferenze indicibili ai popoli dell’Europa. Ma, detto questo, c’è differenza tra dire che non avremmo dovuto creare l’euro e dire che ora dovremmo uscirne. A causa di quella che in matematica chiamiamo isteresi. In altre parole uscire non ci riporterà a dove eravamo prima o a dove saremmo stati se non fossimo entrati.
Alcuni fanno l’esempio dell’Argentina, ma la Grecia non è nella situazione in cui era l’Argentina nel 2002. Non abbiamo una moneta da svalutare nei confronti dell’euro. Abbiamo l’euro! Uscire dall’euro significherebbe una nuova moneta, il che richiede quasi un anno da introdurre, per poi svalutarla. Ciò sarebbe lo stesso che se l’Argentina avesse annunciato una svalutazione con dodici mesi di anticipo. Sarebbe catastrofico, perché se si dà un simile preavviso agli investitori – o persino ai comuni cittadini – questi liquiderebbero tutto, si porterebbero via i soldi nel periodo che gli si è offerto in anticipo rispetto alla svalutazione, e nel paese non resterebbe nulla.
Anche se potessimo tornare collettivamente alle nostre monete nazionali in tutta l’eurozona, paesi come la Germania, la cui moneta è stata cancellata in conseguenza dell’euro, vedrebbero salire alle stelle i loro rapporti di cambio. Ciò significherebbe che la Germania, che al momento ha una bassa disoccupazione ma un’elevata percentuale di lavoratori poveri, vedrebbe tali lavoratori poveri diventare disoccupati poveri. E ciò si ripeterebbe dovunque in Europa orientale e centrale: in Olanda, Austria, Finlandia, in quelli che chiamo paesi in attivo. Mentre in luoghi come Italia, Portogallo e Spagna, e anche in Francia, ci sarebbe contemporaneamente una fortissima caduta dell’attività economica (a causa della crisi in paesi come la Germania) ed un forte aumento dell’inflazione (perché le nuove monete in quei paesi dovrebbero svalutare in misura molto considerevole, provocando il decollo dei prezzi all’importazione di petrolio, energia e merci fondamentali).
Dunque, se torniamo nel bozzolo dello Stato-nazione, avremo una linea di faglia lungo il fiume Reno e le Alpi. Tutte le economie ad est del Reno ed a nord delle Alpi finirebbero in depressione ed il resto dell’Europa sprofonderebbe in una stagflazione economica caratterizzata da elevata disoccupazione e inflazione.
Potrebbe addirittura scoppiare una nuova guerra; magari non si tratterebbe di una guerra vera e propria, ma le nazioni si scaglierebbero l’una contro l’altra. In un modo o nell’altro, l’Europa farebbe ancora una volta affondare l’economia mondiale. La Cina sarebbe devastata da questo e la fiacca ripresa statunitense svanirebbe. Avremo condannato il mondo intero ad almeno una generazione perduta. Eventi di questo tipo non vanno mai a vantaggio della sinistra. Saranno sempre gli ultranazionalisti, i razzisti, i fanatici ed i nazisti a trarne profitto.
L’euro o l’Unione Europea possono essere democratizzati?
Fondiamo entrambe le cose per il momento. L’Europa può essere democratizzata? Sì, penso di sì. Lo sarà? Sospetto di no. Se mi chiedi le mie previsioni, io sono molto pessimista. Penso che il processo di democratizzazione abbia pochissime possibilità di successo. Nel qual caso avremo una disintegrazione ed un futuro molto cupo. Ma la differenza, quando parliamo della società o del tempo, è che al tempo non interessa un fico secco delle nostre previsioni, dunque possiamo permetterci di rilassarci e guardare il cielo e dire che pioverà perché una tale affermazione non influenza la probabilità che piova. Ma quando si tratta di società e di politica abbiamo un dovere morale e politico di essere ottimisti e di dire, d’accordo, di tutte le scelte che ci sono disponibili, qual è quella che ha meno probabilità di causerà una catastrofe? Per me si tratta del tentativo di democratizzare l’Unione europea. Penso che riuscirà? Non lo so, ma se non spero che ci riusciremo, non posso alzarmi dal letto al mattino.
Democratizzare l’Europa è una questione di rivendicare principi fondamentali o di sviluppare una nuova idea di sovranità?
Entrambe le cose. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. L’idea di sovranità non cambia, ma il modo in cui si applica ad aree multietniche e multi-giurisdizionali come l’Europa va ripensata. È sempre stato frustrante cercar di convincere i francesi ed i tedeschi che c’è una profonda differenza tra un’Europa delle nazioni e un’Unione europea. I britannici lo capiscono meglio, specialmente i conservatori, ironicamente. Sono sostenitori di Edmund Burke, anti-costruttivisti che ritengono che debba esserci una mappatura uno a uno tra nazione, parlamento e moneta: una nazione, un parlamento, una moneta.
Quando chiedo ai miei amici Tory: «Ma e la Scozia? Gli scozzesi non sono una nazione vera? E in tal caso non dovrebbero avere uno Stato e una moneta separate?», la risposta che ottengo assume la forma seguente: «Naturalmente ci sono una nazione scozzese, gallese e inglese e non c’è una nazione britannica, ma c’è un’identità comune, forgiata come esito di guerre di conquista, partecipazione all’impero e via di seguito». Se questo è vero, e può esserlo, allora è possibile dire che nazionalità diverse possono essere legate da un’identità comune in evoluzione. Dunque è così che mi piacerebbe vederla. Non avremo mai una nazione europea, ma possiamo avere un’identità europea che corrisponda ad un popolo europeo sovrano. Dunque manteniamo il concetto vecchio stile di sovranità, ma lo colleghiamo ad un’identità europea in sviluppo, cioè collegata da una sovranità e da un parlamento unici che mantengono pesi e contrappesi sul potere esecutivo a livello europeo.
Al momento abbiamo l’ECOFIN, l’Eurogruppo ed il Consiglio Europeo che prendono decisioni importanti per conto del popolo europeo, ma questi organismi non rispondono ad alcun parlamento. Non è sufficiente dire che i membri di queste istituzioni rispondono ai loro parlamenti nazionali perché i membri di queste istituzioni, quando tornano in patria per presentarsi al proprio parlamento nazionale, dicono: «Non guardate me. Io ero in disaccordo su tutto a Bruxelles ma non ho avuto il potere di prendere una decisione, perciò non sono responsabile delle decisioni dell’Eurogruppo o del Consiglio o dell’ECOFIN». Fino a quando questi organismi istituzionali non potranno essere censurati o licenziati come organismo da un parlamento comune non si avrà una democrazia sovrana. Dunque dovrebbe essere questo l’obiettivo in Europa.
Alcuni sosterrebbero che questo rallenterebbe il processo decisionale e lo renderebbe inefficiente.
No, penso che non rallenterebbe il processo decisionale, lo rafforzerebbe! Al momento, poiché non c’è questo tipo di responsabilità, non viene presa nessuna decisione fino a quando è impossibile non agire. Continuano a rimandare, rimandare, negare un problema per anni e poi abborracciano un risultato all’ultimo minuto. Questo è il sistema più inefficiente in assoluto.
Ora sei impegnato nel lancio di un movimento per la democrazia in Europa. Parlacene.
Il lato positivo del modo in cui il nostro governo è stato schiacciato l’estate scorsa è che milioni di europei sono stati allertati sul modo in cui è gestita l’Europa. La gente è molto, molto arrabbiata, anche persone che dissentono da me e da noi.
Da mesi sto girando l’Europa da un paese all’altro cercando di promuovere la consapevolezza delle sfide comuni che abbiamo di fronte e della tossicità che deriva dalla mancanza di democrazia. Questo è stato il primo passo. Il secondo passo è consistito nel diffondere un manifesto, poiché i manifesti sono importanti in quanto concentrano l’attenzione e possono divenire punti focali per le persone arrabbiate e preoccupate e che vogliono partecipare ad un processo di democratizzazione dell’Europa.
Così, nelle prossime settimane metteremo in scena un evento importante a Berlino (il 9 febbraio), tenuto là per evidenti motivi simbolici, per lanciare il manifesto e sollecitare gli europei di tutti e 28 gli Stati membri ad unirsi a noi in un movimento che ha un unico semplice programma: democratizzare l’UE o abolirla. Perché se permetteremo che le attuali strutture e istituzioni burocratiche e non democratiche di Bruxelles, Francoforte e Lussemburgo continuino a gestire le politiche per nostro conto, finiremo nella distopia che ho descritto in precedenza.
Dopo l’evento di Berlino abbiamo in programma una serie di eventi in tutta Europa che daranno al nostro movimento lo slancio necessario. Non siamo una coalizione di partiti politici. L’idea è che ciascuno possa aderire indipendentemente dall’affiliazione partitica e dall’ideologia perché la democrazia può essere un tema unificante. Possono aderire persino i miei amici Tory o liberali che sono in grado di capire che l’UE non è solo insufficientemente democratica ma antidemocratica e, per tale motivo, economicamente incompetente.
In termini pratici come immaginiamo il nostro intervento? Il modello della politica in Europa si è basato su partiti politici specificamente nazionali. Così, un partito politico cresce in un paese particolare, elabora un manifesto che fa appello ai cittadini di quel paese e poi, solo una volta che il partito si trova al governo, vengono compiuti dei tentativi di costruire alleanze con partiti che la pensano allo stesso modo in Europa, nel Parlamento europeo, a Bruxelles, ecc. Per quanto mi riguarda questo modello di politica è finito. La sovranità dei parlamenti è stata dissolta dall’eurozona e dall’Eurogruppo; la capacità di adempiere al proprio mandato al livello dello Stato-nazione è stata sradicata e perciò qualsiasi manifesto rivolto ai cittadini di un particolare Stato membro diventa un esercizio teorico. I mandati elettorali sono ora per definizione impossibili da adempiere.
Così, invece di passare dal livello dello Stato-nazione a quello europeo, abbiamo pensato che dovevamo fare l’inverso; che dovevamo costruire un movimento paneuropeo transnazionale, tenere un confronto in quello spazio per identificare politiche comuni per affrontare problemi comuni e, una volta ottenuto il consenso su strategie comuni a livello europeo, tale consenso potrà trovare espressione a livello di Stato-nazione, regionale e municipale. Dunque stiamo rovesciando il processo, partendo dal livello europeo per tentare di trovare consenso per poi scendere verso il basso. Questo sarà il nostro modus operandi.
Quanto alla tempistica, abbiamo diviso il prossimo decennio in diversi periodi, perché abbiamo al massimo un decennio per cambiare l’Europa. Se arrivati al 2025 avremo fallito allora non penso ci sarà un’Unione europea da salvare o persino di cui parlare. A quelli che vogliono sapere che cosa vogliamo ora la risposta è: trasparenza! Come minimo stiamo chiedendo che le riunioni del Consiglio europeo, dell’ECOFIN e dell’Eurogruppo siano messe in rete in tempo reale, che i verbali della Banca centrale europea siano pubblicati e che i documenti relativi ai negoziati sugli scambi, come il TTIP, siano resi disponibili in rete. Nel breve-medio termine discuteremo il ridispiegamento delle istituzioni UE esistenti nell’ambito dei trattati esistenti (per quanto orribili), con l’ottica di stabilizzare la crisi in corso nel campo del debito pubblico, della carenza d’investimenti, del settore bancario e della crescente povertà. Infine, nel medio-lungo termine, solleciteremo la convocazione di un’assemblea costituente dei popoli dell’Europa, con il potere di decidere sulla costituzione democratica futura che sostituirà tutti i trattati europei esistenti.
Sembra che stiamo vivendo in un periodo sia difficile che di speranza. Assistiamo alla crescente popolarità di partiti come Podemos in Spagna, della sinistra in Portogallo, di Jeremy Corbyn nel Regno Unito e così via, ma al tempo stesso abbiamo l’esperienza di SYRIZA schiacciata senza cerimonie della troika. Quale speranza ricavi da questi rifiuti popolari delle politica di austerità, considerata l’esperienza di SYRIZA?
Penso che l’ascesa di questi partiti e movimenti contrari all’austerità dimostri chiaramente che i popoli europei, non solo in Spagna e in Grecia, ne abbiano piene le scatole del vecchio genere di politica, delle politiche incentrate sull’uniformità che hanno riprodotto la crisi e spinto l’Europa su un percorso di disintegrazione. Non ci sono dubbi al riguardo.
La questione è: come possiamo guidare tale scontento? Nel nostro caso, in Grecia, abbiamo fallito. C’è un grande distacco tra la dirigenza del partito e le persone che l’hanno votato. È per questo che credo che concentrarsi sullo Stato-nazione sia una cosa del passato. Se Podemos entrerà nel governo lo farà nelle stesse condizioni estremamente limitanti imposte dalla troika, proprio come il nuovo governo in formazione in Portogallo. A meno che tali partiti progressisti siano sostenuti da un movimento paneuropeo che eserciti una pressione progressista dovunque e contemporaneamente, finiranno per frustrare i loro elettori, costretti ad accettare tutte le regole che impediscono loro di adempiere ai loro mandati.
È per questo che pongo l’accento sulla costruzione di un movimento paneuropeo. È perché il solo modo per cambiare l’Europa consiste nel farlo attraverso un’onda che sorga in tutta Europa. Altrimenti i voti di protesta che si manifestano in Grecia, Spagna, Regno Unito, Portogallo, ecc. se non sono sincronizzati alla fine si dissolveranno, lasciando dietro di sé null’altro che l’amarezza e l’insicurezza prodotta dalla frammentazione inarrestabile dell’Europa.