Femminismi a zonzo

16 Maggio 2019
[Francesca Pili]

Non voglio scendere! Femminismi a zonzo, uscito a febbraio di quest’anno per Golena Edizioni/Malatempora (www.golenaedizioni.com), casa editrice indipendente che fa della controcultura e della controinformazione il suo fiore all’occhiello, non è un saggio normativo, non è comodo, glamour, mainstream (significativo e coraggioso in tal senso è, ad esempio, aver scelto di affidare la prefazione al Collettivo femminista di sex workers e alleat* Ombre Rosse: un riconoscimento umano ma soprattutto politico importante, in un momento nel quale anche alcuni spazi femministi, o pseudo-tali, tendono ad alzare dei muri e a mostrarsi escludenti, dividendo ancora una volta le donne, e anche le femministe, in “per bene” e “per male”).

In realtà, Non voglio scendere! Femminismi a zonzo, non è nemmeno un saggio, ma un phamplet, come amano definirlo le due autrici stesse, Barbara Bonomi Romagnoli, apicultrice, e Marina Turi, informatica, entrambe femministe e giornaliste freelance: un phamplet leggero (ma mai superficiale), auto-ironico, irriverente, appassionato, includente, esattamente come loro.

Parla di femminismi (storie diverse, spesso non assimilabili, ma con un denominatore di lotta comune) e non di femminismo (unico, monolitico, autoreferenziale, settario, chiuso); pone l’accento sull’importanza dell’intersezionalità della lotta, nelle lotte, che ancora manca, ma che, grazie alla spinta propulsiva e vivificante di Non Una Di Meno, sta cominciando a diventare una realtà. L’intersezionalità, concetto che dobbiamo in primis al black feminism degli anni ’70-’80 del secolo scorso, è, finalmente, al centro del nuovo dibattito femminista: l’idea, lapalissiana eppure rivoluzionaria, che ogni oppressione (sessismo, eterosessismo, razzismo, classismo, capitalismo, colonialismo, abilismo) sia connessa, abbia matrice comune e che, per questo, anche la lotta, a ogni tipo di oppressione, debba essere condivisa; dà voce a donne transessuali, ancora non accettate da chi si definisce “femminista” ma attua poi, di fatto, un atteggiamento discriminatorio nei confronti di altre donne che non riconosce come tali (la transfobia, purtroppo, è una piaga anche in ambito femminista, e assume la forma del cosiddetto TERF – femminismo trans-escludente, al quale contrapporre i trans-femminismi che caratterizzano questa quarta ondata del femminismo); dà voce a uomini transessuali femministi non binari (considerati da alcune pseudo-femministe come «traditori del genere»), alleati di lotta, di lotte, e scardinatori di stereotipi sul genere, sui generi, ancora duri a morire; dà voce a femministe arabe e musulmane, per ricordare sempre, a noi femministe/femministi/femminist* occidentali, che non abbiamo alcun diritto di giudicare e condizionare le scelte di altre donne, e di altre femministe, in nome di un’idea assolutistica, astratta, parziale, spesso mistificante di “libertà” e di una concezione etnocentrica, occidentalizzante, imperialista di “femminismo”.

Parla dell’importanza del linguaggio.

Parla di molestie, di violenza maschilista e di femminicidi.

Di lavoro produttivo e riproduttivo, di precarietà, di sciopero globale.

Parla di quel femminismo venduto come «prodotto di mercato», edulcorato quando non completamente svuotato dai suoi contenuti radicali e snaturato, mero glamour, nella sua declinazione – meglio: degenerazione – consumistica; un “femminismo” che femminismo non è, scritto su magliette alla moda, fabbricate da donne sfruttate in un’altra parte del globo.
Parla di contraccezione, di interruzione volontaria di gravidanza e del diritto alla salute ancora – in certi casi, verrebbe da dire «nuovamente», considerato il crescente reazionarismo – fin troppo spesso non garantito.
Parla di sesso e di erotismo.

Parla di masturbazione, potente gesto di autonomia e autogestione emotiva.

Parla di porno e di pregiudizi e tabù che ancora resistono, focalizzandosi, soprattutto, su altri modi, meno “tradizionali”, di raccontarlo, che possono contribuire anche a trasformare la grammatica della sessualità (un esempio è il porno dichiaratamente femminista della regista svedese Erika Lust).

Parla, ovviamente, di politica: il femminismo è politico, è politica, o non è.

E, a riprova del coraggio e del punto di vista e di una narrazione assolutamente pungenti, non accomodanti né retorici, parla della maternità anche come strumento per agire potere; questo potere, non certo neutro, condiziona molto il dibattito sulla GPA (gestazione per altri), che un certo femminismo vorrebbe far passare sempre e solo come mercificazione del corpo, come sfruttamento, sempre e solo come “utero in affitto”, e mai come scelta realmente libera e consapevole, e ogni donna che decide di praticarla come vittima e insieme complice del patriarcato e del capitalismo.

Questo è, non per niente, uno dei temi più complessi, delicati, sicuramente controversi, sui quali ci troviamo a dibattere.

Al centro di tutto, ancora una volta, sempre, oltre all’intersezionalità, è l’autodeterminazione: fulcro e chiave della rivoluzione femminista.
Un’autodeterminazione intesa, per l’appunto, non come realizzazione di poche/i/*, ma come liberazione per tutte/i/*.

Spunti di riflessione e percorsi, insomma, sono davvero tanti.

Non ci resta che salire a bordo di questa metropolitana, resa icasticamente grazie all’iconica copertina a cura di Gaia Guarino, che dispiega sei tragitti per l’autodeterminazione e la ribellione, e che ci mostra femminismi «con la capacità di organizzarsi al meglio per essere efficaci», che siano «eccezioni senza regole», per «smantellare il patriarcato» e «reinventare un mondo che così per noi proprio non funziona».

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