Fine del liberalismo occidentale e democrazia illiberale
16 Febbraio 2018[Gianfranco Sabattini]
In “Il tramonto del liberalismo occidentale”, Edward Luce, autorevole editorialista del Financial Time, sostiene che la capacità dell’Occidente di governare le sue crisi sta andando in frantumi, “mettendo in gioco la lettura quasi religiosa della storia occidentale”, che l’autore considera iniziata nel 1215, anno in cui re Giovanni d’Inghilterra è stato costretto, da parte di un gruppo di nobili ribelli, a firmare la Magna Carta, considerata il primo documento redatto a garanzia delle libertà individuali.
Il documento, secondo Luce, è rimasto a lungo “silente”, per essere riportato alla memoria nel XVII secolo, con la sua trasformazione nel “mito fondativo del liberalismo occidentale”. Quando, dopo la Seconda guerra mondiale, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato, nel 1948, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Eleanor Roosevelt ha avuto modo di dire che l’antico documento garantista delle libertà individuali poteva essere celebrato come la Magna Carta di tutta l’umanità.
A parere di Luce, il ricupero del documento inglese darebbe la misura della “smemoratezza” dell’uomo; per cui, se questo è l’atteggiamento che egli riserva ai documenti che sanciscono il rispetto dei suoi diritti, si dove “imparare a vivere all’altezza di ciò che ne consegue”; come dire che gli effetti della smemoratezza e dell’incredulità dell’uomo sono spesso all’origine di ciò che ricorrentemente rende sgradevole la vita e quasi impossibile la soluzione dei problemi che l’affliggono.
Secondo Gianni Riotta, prefattore del libro, nello sviluppare le sue argomentazioni sullo stato del mondo attuale Luce assumerebbe l’ipotesi della complessità “con intelligenza e passione; ciò consentirebbe all’autore di chiarire che la crisi delle democrazie liberali occidentali, dovuta alle difficoltà “dei partiti di massa, dei mercati globali, del mondo aperto di cui la fine del Novecento aveva celebrato i fasti prematuri”, non nascerebbe da un unico motivo originario, ma da un insieme di cause storiche, economiche e culturali, tutte convergenti verso un futuro che non lascia intravedere nessuna riscossa dell’Occidente.
In tal modo, a parere di Riotta, Luce dimostrerebbe con certezza che, “sfasciata la macchina liberal-democratica che, con tanta sofferenza e due guerre mondiali” era stata costruita, il mondo occidentale non riuscirà ad entrare “nell’Eden della ‘decrescita felice’ annunciato da Serge Latouche”, ma sarà vittima del caos nel quale le multinazionali, i regimi totalitari, le democrazie illiberali e i plutocrati lo costringeranno a vivere, “relegando la plebe nelle megalopoli, drogandola di ‘reddito di cittadinanza’ e bulimica dieta di volgari intrattenimenti online e tv”.
Strana tesi, questa, sostenuta da Luce ed espressa sinteticamente da Riotta, che fa confluire entrambi nella schiera dei molti che, pur cogliendo nel segno circa l’individuazione delle cause della crisi delle società democratiche occidentali ad economia di mercato, mancando però di contribuire alla loro rimozione con proposte reali e credibili, se la prendono con il reddito di cittadinanza, arrivando a ritenerlo addirittura una droga che varrebbe a svilire totalmente il lavoro. E’ sostenibile questa valutazione negativa del reddito di cittadinanza? Per rispondere, è bene preventivamente seguire lo svolgimento dell’analisi critica delle società occidentali compiuta da Luce.
Secondo l’editorialista del Financial Time, un convincimento consolidato nell’immaginario collettivo dei Paesi occidentali avanzati, retti da regimi democratici, è che “le macchine finiranno col lavorare per tutti noi”. In alcune epoche del passato, la crescente meccanizzazione dei processi produttivi ha provocato cambiamenti traumatici per quote consistenti di forza lavoro; ma la società, e con essa il sistema economico, riusciva sempre, sia pure a volte con ritardo, ad adattarsi ai mutamenti delle combinazioni produttive all’interno delle attività d’impresa, nel senso che molti componenti della forza lavoro espulsi dalla stabilità occupazionale a causa del crescente approfondimento capitalistico delle modalità di produzione, riuscivano a convertire i servizi da loro offerti (come accadeva, ad esempio, con il cocchiere che trovava un nuova opportunità occupazionale in un’attività di trasformazione, o con il lavoratore dei campi che, con la sua conversione professionale, poteva trovare un nuovo posto di lavoro nelle attività che producevano servizi alla persona). Con l’avvento della rivoluzione digitale, che ha segnato l’inizio della “quarta Rivoluzione Industriale” (Rivoluzione Industriale 4.0), i posti di lavoro distrutti saranno di gran lunga maggiori di quelli di nuova creazione.
La nuova rivoluzione industriale e “ancora in fasce” – avverte Luce -, ma è certo che non sarà più possibile, come avveniva nel passato, che le singole società possano inaugurare delle politiche pubbliche con cui assicurare ad ogni singolo individuo uno stabile ruolo lavorativo in un futuro iperautomatizzato. Ciò perché le singole società politiche avranno, oggi, meno soluzioni plausibili di quanto la rivoluzione digitale ne offriva al suo inizio e, a maggior ragione, di quanto ne offriva la semplice meccanizzazione dei processi produttivi. Le società politiche hanno oggi a loro disposizione minori strumenti con cui opporsi alle conseguenze delle innovazioni tecnologiche, in quanto la rivoluzione digitale è “caratterizzata da dinamiche diverse dalle precedenti”. Ai tempi della meccanizzazione dei processi produttivi, i mutamenti originavano sconvolgimenti nelle combinazioni produttive prevalenti solo in settori specifici dell’economia, mentre gli esiti della rivoluzione digitale hanno carattere generale e investono, tutti indistintamente, i settori produttivi.
La domanda che allora insorge è: sino a che punto il sistema sociale potrà sopportare la formazione al suo interno di una crescente massa di disoccupati strutturali, senza correre il rischio di collassare? Secondo il McKinsey Global Institute, una multinazionale di consulenza strategica, circa 50 milioni di lavoratori occidentali hanno perso la stabilità occupazionale, cercando di “guadagnarsi da vivere” nella “gig economy”, che ha dato luogo a una configurazione informale e particolare del mercato del lavoro, in cui i disoccupati-tecnologici offrono i propri servizi attraverso le opportunità fornite dalla rivoluzione digitale; si tratta di occupazioni “on demand”, ovvero di forme di lavoro residuali, svolte attraverso un sistema di rapporti saltuari, senza impegni contrattuali a tempo indeterminato.
Il vero problema della gig economy è la mancanza di tutela nei confronti dei lavoratori, per via del fatto che la loro attività, essendo svolta in assenza di contratti di lavoro formali, difficilmente consente di fruire dei servizi sociali previsti per i lavoratori dipendenti; inoltre, poiché le opportunità di lavoro sono offerte in modo saltuario e non continuativo, la gig economy viene considerata all’interno del più ampio contesto della “sharing economy”, ovvero dell’economia collaborativa, realizzata grazie alle opportunità della rivoluzione digitale.
L’epoca dell’automazione, conseguentemente, sta rendendo – afferma Luce – il lavoro sempre meno necessario, per cui “le imprese sono alla costante ricerca di modi di ridurre il personale”. Di fronte al continuo allargamento della sharing economy, la forza lavoro è destinata nella sua maggioranza ad abbandonare la “produzione di cose”, per passare “a servire la gente”; se a questo limite non si riuscirà a porre rimedio, sarà inevitabile che la democrazia (il regime politico che sinora ha accompagnato l’evoluzione dei sistemi sociali occidentali economicamente più avanzati) corra il rischio di subire ingiustificabili restrizioni; ciò perché, a lungo andare, la forza lavoro che sarà costretta ad ingrossare il crescente esercito dei disoccupati dubiterà che la società la stia trattando secondo equità. A quel punto – afferma Luce – la forza lavoro non occupata scivolerà “verso la cultura della sfiducia”, per cui non dovrà sorprendere che cominci “a considerare con velenosa diffidenza” tutto ciò che gli establishment promettono di realizzare a suo vantaggio.
Il rimedio ai problemi delle società capitalisticamente avanzate, Luce non lo indica, perché convinto del fatto che qualunque soluzione proponibile abbia “i suoi limiti”, mentre quella da molti avanzata e basata sull’istituzionalizzazione di un redito di cittadinanza avrebbe un “fascino sinistro”, presentando, a suo parere, due difetti: il primo sarebbe che un reddito universale garantito a tutti, pur comportando il grande vantaggio di abolire l’intero apparato burocratico necessario a stabilire il possesso dei requisiti per poterlo ricevere, sarebbe in ogni caso “un nuovo e potente magnete per chi emigra verso il mondo occidentale”; il secondo difetto consisterebbe nel fatto che l’erogazione generalizzata di un reddito universale “spezzerebbe il legame tra sforzo e ricompensa”; circostanza, questa, che impedirebbe alla forza lavoro disoccupata involontariamente, ma senza la possibilità di un reinserimento in un nuovo rapporto di lavoro, di essere valorizzata.
A parere di Luce, per risolvere il problema della crescente e irreversibile disoccupazione tecnologica delle società capitalisticamente avanzate dell’Occidente, occorre pensare in modo più radicale. Un obiettivo cruciale dovrebbe essere quello di aumentare la rimunerazione della forza lavoro altamente professionalizzata; ciò comporterebbe la formazione di lavoratori dotati di alte capacità tenico-professionali, il miglioramento delle qualità del loro lavoro e dunque una più alta rimunerazione (molti Paesi del mondo occidentale avrebbero trascurato le conseguenze positive che si avrebbero, per l’intero sistema sociale, con più elevate rimunerazioni dei servizi lavorativi di alta qualità, in quanto avrebbero preferito, al contrario, acquisire la fornitura di “quei servizi al prezzo più basso possibile”.
Un altro obiettivo dovrebbe consistere nel formare la forza lavoro in modo da adeguarla “a un mondo in cui le macchine stanno assorbendo buona parte dei posti di lavoro”; ciò implicherebbe una formazione della forza lavoro fondata sull’interesse per le “materie umanistiche”, compreso un livello base di “competenza politica”, in considerazione del fatto che l’”istruzione non dovrebbe servire solo a procurarsi un impiego”, ma dovrebbe mettere tutti i lavoratori nella condizione di “essere membri a pieno titolo della società”.
A tal fine, nei Paesi investiti dal fenomeno della disoccupazione di massa irreversibile, i governi dovrebbero “lanciare dei Piani Marshall per riqualificare le loro classi medie”, provvedendo, nel contempo, a “reimmaginare” la democrazia e ad attenuare “la morsa letale del denaro sul processo legislativo”. Tuttavia, avverte Luce, i governi delle società che soffrono dei problemi della disoccupazione di massa, dovrebbero “prima capire l’enormità di ciò che hanno di fronte” e, successivamente, considerare che la questione più grande che dovranno risolvere riguarda il “futuro della politica”.
Se queste questioni saranno risolte, l’Occidente, a parere di Luce, potrà “riguadagnare il proprio ottimismo”; per questo, le élite liberali dominanti dovranno smettere di continuare a gestire i sistemi sociali moderni ad economia di mercato limitandosi a sottoscrivere petizioni di ogni tipo e ritenere che gli appelli e le intenzioni annunciate siano sufficienti per pensare di aver fatto la propria parte; in altri termini, le élite dominanti dovranno abbandonare, da un lato, il convincimento che i problemi causati dal procedere senza limiti delle rivoluzione tecnologica e della robotizzazione dei processi produttivi possano automaticamente essere risolti dal libero e spontaneo andamento del processo economico e, dall’altro lato, l’idea che i supporti della rivoluzione digitale possano, con la share economy, garantire l’avvento di una società giusta sul piano distributivo e di un sistema economico caratterizzato da un suo stabile ed equilibrato funzionamento.
Conclusione contraddittoria questa di Luce: è palesemente un “non senso” ritenere di poter risolvere il problema della disoccupazione strutturale irreversibile evitando che le politiche pubbliche da adottate per affrontare l’emergenza possano fare a meno dell’introduzione di misure, qual è il reddito cittadinanza, includendo però quelle da lui suggerite. Come si può pensare di poter rimediare alla disoccupazione involontaria e strutturale con i soli provvedimenti che Luce suggerisce, se la loro attuazione richiede tempi tanto lunghi, da implicare la preventiva fine fisica di chi dovrebbe fruire dei loro effetti? Siamo alle solite: i pregiudizi nutriti sugli strumenti che si offrono come i più efficaci, nel breve come nel lungo periodo, portano inevitabilmente alla continua affermazione che, per rimediare al problema della disoccupazione strutturale sia sufficiente ciò che Luce stesso imputa alle élite liberali; cioè continuare a sottoscrivere petizioni e appelli di ogni tipo, convinti che solo con essi possa essere sconfitto il male moderno delle società capitalisticamente avanzate.