Flat tax e riforma del sistema fiscale
1 Novembre 2017[Gianfranco Sabattini]
Franco Gallo, già presidente della Corte Costituzionale, da sempre impegnato sul fronte dell’equa ripartizione del carico fiscale, ha pubblicato su “Italianieuropei” (3/2017), l’articolo “Idee per un’organica riforma fiscale”; in esso, l’ex giudice costituzionale sostiene che per “essere utile una politica fiscale in tempi di crisi dovrebbe presupporre un sistema tributario flessibile, in grado di sopportare modifiche idonee, da una parte, a far fronte all’avversa congiuntura, dall’altra, a porre le basi per ridurre in un’ottica distributiva le sempre più forti disuguaglianze. Dovrebbe essere un sistema più consonante alle mutate condizioni economiche e sociali e di mercato…”. Al professor Gallo non sembra che in Italia si “stiano profilando iniziative legislative in questo senso”.
Sinora, sul sistema fiscale vigente si sono privilegiati interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione; con provvedimenti che, secondo Gallo, sono stati diretti “più che altro ad aggiustare alcuni pezzi del sistema e, perciò, non riconducibili a un disegno generale di riforma”. In tal modo, si è continuato a conservare una distribuzione del carico fiscale fortemente sperequata, con il prelievo a carico dei fattori produttivi (redditi di lavoro e d’impresa) superiore a quello gravante sui consumi e sul capitale. Il permanere di questa situazione non gioca certo a favore della ripresa della crescita del sistema-Italia, per cui, se si vorrà quantomeno conservare il livello storico delle spesa sociale, occorrerà innovare radicalmente gli strumenti di finanziamento dell’erario dello Stato.
Secondo Gallo, per il superamento dello status quo parrebbe scontata la necessità che una particolare attenzione debba essere riservata alla “riscrittura dell’imposta personale sui redditi e alla revisione del tributo societario”. A tal fine, egli è del parere che bisognerebbe “costruire una curva della progressività che si accompagni a una sorta di imposta negativa sotto forma di credito d’imposta per i contribuenti più bisognosi, che sono poi quelli per i quali il sistema delle deduzioni e delle detrazioni per carichi familiari si rivela incapiente”. Secondo Gallo, questi interventi non sarebbero, però, sufficienti “a rimediare alla difficoltà di differenziare sgravi e agevolazione in proporzione alla situazione economica familiare”; al fine di superare tale limite, sarebbe necessaria l’”attribuzione selettiva di assegni ai nuclei familiari con minori e anziani non autosufficienti”, del tipo di quelli introdotti con l’erogazione del reddito di inclusione a favore di chi si trova esposto al rischio di povertà.
Per realizzare gli interventi da lui proposti, Gallo afferma che sarebbe opportuno tenersi lontani dall’idea di introdurre una “flat tax” (tassa piatta) in tutte le versioni con cui è stata formulata, nella prospettiva di realizzare una riforma complessiva del sistema fiscale, fondata sull’introduzione di un’unica imposta proporzionale e non progressiva sul reddito familiare, ma anche sui profitti delle imprese. La flat tax non gode di buona stima presso Gallo, in quanto, secondo lui, un’unica imposta proporzionale e non progressiva “potrebbe avere teoricamente un senso solo se divenisse il fulcro di un sistema di ‘dividendo sociale’ di tipo universalistico, fondato sul cosiddetto ‘reddito di cittadinanza’, destinato a fornire una garanzia incondizionata di reddito a tutti in quanto cittadini, a prescindere da qualsiasi caratteristica socio-economica”. Gallo ritiene che una riforma complessiva del sistema fiscale, connessa ad un cambiamento profondo, oltre che del sistema fiscale, anche dell’welfare State esistente, non avrebbe senso, sia perché i tempi non sarebbero maturi, sia perché mancherebbero le risorse per la realizzazione di un simile progetto.
In tal modo, Gallo, dopo aver criticato le procedure con cui in Italia il sistema fiscale è sempre stato oggetto di interventi di manutenzione ordinaria, al di fuori di un “disegno generale di riforma del sistema fiscale” più consonante alle mutate condizioni di funzionamento dei moderni sistemi produttivi, giudica un non senso la riflessione sull’uso della flat tax, per una riforma complessiva, oltre che del sistema fiscale, anche del sistema di sicurezza sociale (divenuto quest’ultimo ormai palesemente carente sul piano del contrasto della povertà e della soluzione dei problemi posti dal fenomeno della disoccupazione volontaria irreversibile); così anch’egli, con le sue proposte non inquadrate in un modello generale di riforma del sistema fiscale, finisce con l’allinearsi dalla parte di chi privilegia provvedimenti saltuari, dagli effetti immediati ed estranei ad ogni considerazione di lungo periodo.
Tutto ciò espone il futuro del Paese alle conseguenze negative del “ricatto della politica”, la quale, notoriamente, è sensibile alle decisioni dagli effetti immediati, mentre trascura, e a volte ostacola, per ragioni elettoralistiche, l’adozione di provvedimenti destinati a produrre risultati a più lunga scadenza. Ma quali potrebbero essere i vantaggi connessi alla realizzazione di una riforma complessiva del sistema fiscale e di quello del welfare realizzato sulla base dell’adozione di una flat tax?
Proposte circa i modelli integrati di tassazione, di sicurezza sociale e di equa ripartizione del prodotto sociale ricorrono da tempo nel dibattito economico; le ragioni del proliferare di tali progetti di ingegneria fiscale sono diverse: Massimo Baldini e Paolo Bosi, ad esempio, in “Flat tax, dividendo sociale e spesa di assistenza” (pubblicazione edita nel 2001, a cura del Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche), ne indicano più di una.
La prima è l’esigenza di considerare in modo unitario finalità redistributive tradizionalmente realizzate con diversi strumenti del bilancio pubblico; se la Stato preleva potere di acquisto – essi affermano – sotto forma di imposta per finanziare anche trasferimenti monetari atti a contrastare la povertà, tanto vale svolgere questa funzione “utilizzando un unico strumento”, al fine di disegnare in modo unitario e più trasparente le finalità distributive dei policy maker.
Una seconda motivazione, è connessa al carattere universale della politica di sicurezza sociale, nel senso che, quando questa ha il carattere dell’estensione propria dei welfare State realizzati nei Paesi dell’Europa occidentale e le prestazioni sociali sono indipendenti dalla condizione economica del beneficiari, tanto vale razionalizzare le entrate fiscali necessarie in una prospettiva di semplificazione delle procedure di prelievo.
Una terza motivazione è ricondotta da Baldini e Bosi alla constatazione che un adeguato grado di progressività del sistema impositivo può essere realizzato anche con un numero molto limitato di scaglioni di aliquote e, al limite, con una sola imposta: la flat tax.
Queste considerazioni hanno assunto rilevo, soprattutto a seguito del dibattito sviluppatosi intorno alla possibilità di contrastare la povertà attraverso l’istituzionalizzazione di un “basic income” (o “dividendo sociale” o “reddito di cittadinanza”); ciò significa – a parere di Baldini e Bosi – che l’interesse per i problemi connessi alle esigenze di razionalizzazione e di semplificazione del sistema impositivo nasce da un intreccio di motivazioni che non sono solo di natura economica, in quanto investono anche aspetti riguardanti la struttura complessiva del sistema sociale, che funge da “contenitore” dell’attività economica.
Fra gli autori che maggiormente hanno contribuito a dibattere i problemi del contesto alla povertà e alle disuguaglianze distributive, Baldini e Bosi si limitano a ricordare Milton Friedman, James Meade, Antony Atkinson e Philip Van Parijs, giusto per evidenziare che si tratta di economisti e di filosofi sociali di diverso orientamento ideologico.
In Friedman – affermano Baldini e Bosi – “assume un ruolo decisivo l’aspetto dell’efficienza, ma anche il fatto che l’erogazione della spesa avvenga in modo automatico, non discrezionale, al riparo dell’influenza di una burocrazia considerata invadente. Una posizione che si concilia con l’idea che, una volta assicurato un minimo di base di sostegno ai più poveri, i compiti dello Stato in questo campo non debbano essere ulteriormente ampliati”. Van Parijs, a differenza di Friedman, enfatizza la funzione che potrebbe essere svolta dall’erogazione di un dividendo sociale, inteso come reddito di cittadinanza, ovvero come “una base economica autenticamente incondizionata”, che in una società democratica e ricca dovrebbe “essere garantita ad ogni cittadino”. La proposta di Van Parijs, rispetto a quella di Friedman, si concilia meglio con un’idea di sistema sociale nel quale, per effetto del progresso scientifico e tecnologico, “sempre meno lavoro sarà necessario per produrre le risorse necessarie al soddisfacimento dei bisogni umani”.
Tra le due posizioni estreme di Friedman di Van Parijs, secondo Baldini e Bosi, si collocano Meade e Atkinson: il primo, “preoccupato di conciliare l’esigenza di lasciare operare il meccanismo di mercato nel determinare il livello di salario di equilibrio, compatibile con il pieno impiego e l’esigenza di sostenere il reddito dei lavoratori con un sussidio non condizionato nel caso in cui il salario di equilibrio si riveli socialmente inadeguato”; il secondo, “sensibile all’esigenza di evitare il means testing, e gli effetti di stigma sociale ad esso connessi”, ma consapevole della difficoltà a fare accettare la giustificazione dei trasferimenti sociali a favore di soggetti che ancora sono dotati di capacità di lavoro.
In conclusione, a parere di Baldini e Bosi, è molto difficile assegnare un’univoca giustificazione a queste proposte; tuttavia, se si escludono le posizioni estreme, quella liberista di Friedman e quella di Van Parijs, che Baldini e Bosi considerano utopistica, meglio si prestano ad essere accolte come possibili contenuti di una riforma fiscale informata a principi di equità distributiva le posizioni intermedie di Meade e Atkinson; ciò perché, tali proposte cercano di stabilire una connessione tra le riforme del sistema fiscale e del welfare State esistente, da un lato, e le esigenze operative del mercato del lavoro, dall’altro.
La praticabilità politica dell’istituzione di un dividendo sociale, in funzione di un miglior funzionamento del mercato del lavoro, secondo stime condotte da Baldini e Bosi, presenterebbe, però, sul piano distributivo e dell’efficienza, aspetti sia positivi che negativi, tali da non consentire un giudizio definitivo. L’aspetto maggiormente critico concerne l’alto livello dei programmi di spesa; per questa ragione, anch’essi sono del parere che una riforma del tipo di quelle suggerite da Atkinson e da Meade non potrebbe fare a meno di confrontarsi, in relazione alla dimensione molto rilevante dei trasferimenti implicati, con la sostenibilità dei programmi di spesa destinati alla realizzazione della sicurezza sociale.
La sostenibilità, in termini di risorse, di una riforma organizzativa tanto vasta e profonda del sistema sociale e di quello economico è sicuramente un problema non eludibile; però non è meno eludibile il fatto che la riforma non sarebbe solo destinata a contrastare la povertà, ma anche a contrastare il fenomeno che costituisce oggi la sfida più difficile per la stabilità di funzionamento delle economie della maggior parte dei Paesi industrializzati, rappresentato dall’elevato livello, in crescita sistematica, della disoccupazione strutturale.
Ciò accade perché, come evidenzia Renata Targetti Lenti, in “Reddito di cittadinanza e minimo vitale” (pubblicato sul n. 2/2000 della “Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle finanze”), si è indebolita, se non addirittura invertita, la relazione tra dinamica della produzione e crescita dell’occupazione. La disoccupazione è divenuta oggi in larga misura involontaria, strutturale, indipendente dal ciclo e persistente, anche durante le fasi di crescita; è emersa così nei Paesi industrializzati quella che può essere definita la “nuova questione sociale”, espressa dal fatto che una quota crescente della popolazione attiva viene esclusa dal mercato del lavoro in modo irreversibile.
Le modifiche nel modo di funzionare dei moderni sistemi economici avanzati richiedono perciò una riforma complessiva del sistema fiscale e del sistema di sicurezza sociale, idonea ad estendere una rete di garanzie minimali, come l’indipendenza economica garantita a tutti indistintamente; ciò che può ottenersi attraverso l’introduzione di un reddito incondizionato a favore di tutti i cittadini, sulla base dell’assunto che esso possa essere una efficace risposta, non solo alla crisi dei sistemi di welfare tradizionali, ma anche ai processi di trasformazione che hanno caratterizzato la struttura produttiva ed il mercato del lavoro dei Paesi occidentali. E’ divenuto ineludibile, perciò, trovare la via della sostenibilità dell’introduzione del reddito di cittadinanza incondizionato, approfondendo nel contempo gli effetti attesi sul piano economico in termini, non solo di sostegno dei redditi, ma anche di un più funzionale funzionamento del mercato del lavoro.
In conclusione, rispetto al mercato del lavoro, con l’introduzione del reddito di cittadinanza, lo Stato dovrà progressivamente perdere la tradizionale funzione redistributiva che ha sinora esercitato attraverso un’imposizione fiscale progressiva ed una struttura di trasferimenti alquanto eterogenea e assoggettata al “ricatto della politica”. Il sistema tributario ed il sistema di sicurezza sociale dovranno essere ridisegnati per soddisfare l’esigenza di finanziare il reddito di cittadinanza, avendo come obiettivo principale quello della sicurezza; ma un obiettivo non meno importante sarà quello di assicurare funzionalità al mercato del lavoro, sottraendo la sicurezza dei disoccupati e lo stabile funzionamento del sistema economico alle convenienze elettorali della politica, così come sinora è accaduto.