Flessibilità del nuovo capitalismo e precarietà del lavoro
16 Marzo 2016Gianfranco Sabattini
Con l’affermarsi dell’ideologia neoliberista è invalso l’uso dell’espressione “capitalismo flessibile”, per rappresentare qualcosa di più della variazione di un vecchio modello organizzativo dell’attività produttiva; tutta l’enfasi, secondo Richard Sennet, sociologo della London School of Economics, che ha scritto “L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale”, è posta sulla flessibilità, piuttosto che sugli effetti esistenziali per chi ne subisce le conseguenze negative. Col nuovo capitalismo, alla forza lavoro viene chiesto, nella prospettiva di un presunto miglioramento delle proprie condizioni economiche ed extraeconomiche, di essere più disponibile al cambiamento, “di correre continuamente qualche rischio, di affidarsi meno a regolamenti e alle procedure formali”.
Il significato che all’interno dell’ideologia neoliberista si assegna alla flessibilità sta cambiando il modo d’intendere il lavoro; per convincerci, basta considerare, seguendo Sennet, l’etimologia della parola “carriera”, che rimanda alla “via nella quale si può passare con i carri” e, in senso metaforico, alla via professionale maestra che un soggetto decide di percorrere nella vita, al fine d’acquisire quanto necessario per la soddisfazione dei propri progetti. Ma oggi, – osserva Sennet – “il capitalismo flessibile, con la sua pratica di spostare all’improvviso i lavoratori dipendenti da un tipo di incarico a un altro, ha cancellato i percorsi lineari tipici delle carriere”.
Tra l’altro, nella lingua inglese, al sostantivo “career” (carriera) è associato nel linguaggio economico la parola “Job” (lavoro), che originariamente stava ad indicare “qualcosa” che poteva essere svolta indifferentemente in un qualsiasi luogo. Oggi, il concetto di flessibilità, caro all’ideologia neoliberista, sta ricuperando perciò il significato arcaico del sostantivo “Job”, considerato che durante la propria vita lavorativa la forza lavoro, con la flessibilità, può essere chiamata a svolgere mansioni eterogenee all’interno di una qualsiasi delle localizzazioni produttive in cui si articola l’attività produttiva nella quale è occupata. Non è quindi casuale che, persino nell’attività legislativa italiana, la terminologia impiegata, come in “Jobs Act” (la legge con la quale il governo italiano intende supportare una politica attiva per l’occupazione) tradisca l’egemonia del neoliberismo sulla politica.
Lo stato di cose cui ha dato origine la flessibilità del nuovo capitalismo è valso a generare ansietà e precarietà occupazionale in tutto coloro che, per sopravvivere, devono trovarsi necessariamente un “posto di lavoro”; l’ansietà, in particolare, è causata dal fatto che nessuno riesce a valutare quali rischi valga la pena correre scegliendo una particolare occupazione, o quale “carriera” è opportuno intraprendere. Connotato in questo modo, è inevitabile che nella vita lavorativa il termine flessibilità sia impiegato per aggirare le caratteristiche negative del nuovo capitalismo. Infatti, in luogo dei tanto decantati effetti positivi della flessibilità, grazie alla quale il lavoratore dovrebbe acquisire un maggior controllo sulla propria vita e maggiori possibilità e opportunità di soddisfare meglio i propri interessi, la stessa flessibilità in realtà esprime solo una nuova forma di controllo dell’impiego delle unità lavorative all’interno dell’impresa, in sostituzione di quella utilizzata in passato, considerata obsoleta.
L’aspetto della flessibilità che genera maggiore precarietà esistenziale è l’impatto sulla pratica dei soggetti di ritardare la soddisfazione di stati di bisogno presenti, in funzione di uno scopo futuro; in altri termini sulla capacità dei soggetti di programmare il proprio futuro. Il fatto che il mondo della produzione, per via della flessibilità, sia imperniato sul breve periodo, rende impossibile il perseguimento di obiettivi a lungo termine; per cui, la critica della routine lavorativa – osserva Sennet – e la ricerca di flessibilità hanno prodotto nuove strutture di potere e di controllo, piuttosto che creare condizioni per una maggiore libertà della forza lavoro. Per realizzare con la flessibilità queste nuove strutture di controllo, il mondo imprenditoriale, plasmato dall’ideologia neoliberista, ricorre alla “ristrutturazione” produttiva, finalizzata alla riduzione dei posti di lavoro ed attuata unicamente al fine di aumentare la competitività delle attività produttive; fatto, questo, che in gran parte delle economie capitalisticamente avanzate ha avuto un rapporto diretto con la crescita delle disuguaglianze distributive, in quanto solo una minoranza di lavoratori espulsi dalle imprese che si sono ristrutturate ha trovato un’occupazione sostitutiva a salario equivalente.
Ma come è possibile garantire stabilità e condizioni esistenziali di certezza alla forza lavoro, all’interno dei sistemi sociali la cui economia è imperniata sul breve periodo e sulla flessibilità dell’organizzazione delle imprese in essa operanti? Secondo Sennet, alla domanda possono essere date due risposte alternative, classificando le economie capitalistiche avanzate nei termini in cui le ha classificate il banchiere francese Michel Albert in “Capitalismo contro capitalismo”: ovvero, in economie organizzate secondo il “modello renano” (quasi rutti Paesi dell’Unione Europea) ed economie organizzate secondo il “modello angloamercano” (Inghilterra e Stati Uniti).
Nel primo modello, il controllo sull’organizzazione della produzione è esercitato dalle imprese e dai sindacati, mentre lo Stato fornisce un ampio sistema di protezione sociale nei casi di disoccupazione involontaria, di malattia e di pensionamento per raggiunti limiti di età; nel secondo modello, quello angloamercano, in luogo dell’esercizio di un controllo congiunto dell’organizzazione produttiva da parte di imprese e sindacati, è lasciato più spazio, nella disciplina dell’andamento dell’attività produttiva, alle forze spontanee del libero mercato. Secondo Sennet, “il modello renano mette in risalto certi obblighi delle istituzioni economiche nei confronti della politica della nazione, il modello angloamericano insiste sulla subordinazione della burocrazia statale nei confronti dell’economia”, al fine di garantire l’allentamento “della rete di sicurezza fornita dall’ambito pubblico”.
In termini di mercato, sia le attività produttive del modello renano, sia quelle del modello anglosassone, operano tuttavia con la stessa flessibilità e rapidità di decisione; la differenza tra i due modelli organizzativi dell’attività economica sta nel particolare rapporto che si instaura tra il mercato e lo Stato. Il modello renano tende a porre un freno alle ristrutturazioni imposte dalla flessibilità, per lenire le difficoltà esistenziali della forza lavoro, mentre il modello anglosassone tende a giustificare tali ristrutturazioni, anche se la forza lavoro potrebbe risentirne; il primo modello è “fiducioso nei confronti della burocrazia governativa, mentre quello angloamericano opera nel presupposto che l’intervento pubblico sia colpevole”, sempre, di rigidità, di sprechi e dell’instabile funzionamento del sistema economico. Per tutte le ragioni esposte, il modello renano è indicato come “economia sociale di mercato” e quello anglosassone come “economia neoliberista”, nel senso di economia libera da ogni sorta di regolamentazione.
Entrambi i modelli, tuttavia, non sono esenti da larghe insufficienze; se, col modello renano, le ineguaglianze sono contenute, i livelli della disoccupazione diventano insostenibili, col modello anglosassone, se la disoccupazione è più ridotta, maggiore e più sostenuto è l’approfondimento delle disuguaglianze distributive. La descrizione delle differenze tra i due modelli mette in risalto il modo in cui agisce la flessibilità, la cui intensità di applicazione dipende dai vincoli sociali ai quali è sottoposta; le procedure con le quali è possibile l’esercizio della flessibilità dipendono – afferma Sennet – dal modo in cui ogni sistema sociale definisce il “bene comune”: il modello renano è più sensibile nei confronti della forza lavoro, ma trova difficoltà a creare occupazione, o quanto meno a conservare quella esistente; mentre il modello angloamericano ha pochi vincoli politici riguardo alla “distribuzione diseguale” della ricchezza e del reddito, ma maggiori possibilità in fatto di garantire opportunità occupazionali.
La recessione di questi ultimi anni ha stravolto le condizioni proprie dell’economia sociale di mercato, nel senso che, a causa dell’austerità adottata come terapia per uscire dalle secche della recessione, ha ridotto le garanzie della protezione sociale, sino ad equiparare le condizioni economiche e sociali della forza lavoro dei Paesi che avevano adottato il modello renano a quelle proprie dei Paesi angloamericani; con la differenza che, mentre in questi ultimi le spinte ad uscire dalla recessione si susseguono a sbalzi, combinati con la tendenza a crescere dell’occupazione, nei Paesi dell’Unione Europea, invece, nonostante i sacrifici fatti gravare sulla forza lavoro, la disoccupazione non è diminuita e sono aumentate le ineguaglianze distributive.
Allora, quale risposta dare all’impatto della flessibilità, se entrambi i modelli organizzativi dell’attività produttiva hanno l’effetto di rendere precario lo stato esistenziale di chi deve vivere con la sola rimunerazione dei servizi della propria capacità di lavoro? Quale senso attribuire alla raccomandazione che l’Unione europea ha rivolto a tutti gli Stati membri, di riconoscere, nell’ambito d’un dispositivo globale e coerente di lotta all’emarginazione sociale, il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana e di adeguare a quest’esigenza i propri sistemi di protezione sociale?
In Italia, il tanto sbandierato Jobs Act non sembra dare risposte adeguate a questi interrogativi e, quel che più conta, non sembra idoneo a fornire al Paese una reale politica attiva per assicurare stabilità e certezza al lavoro; oltre alle risorse che sarebbero necessarie, manca un orientamento più rispondente al sostegno di una politica attiva del lavoro, quale sarebbe la revisione del sistema welfaristico esistente, ormai divenuto largamente obsoleto; ma su questo punto, nel nostro Paese, si stenta ad avviare un dibattito responsabilmente informato, privilegiando misure contingenti di breve respiro, in luogo dell’avvio di una reale riforma di lungo periodo, con cui sostenere la ripresa della crescita all’interno di un sistema sociale stabile ed in presenza di una equità distributiva condivisa.