Fluoro a Portovesme

1 Ottobre 2009

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Vittorio Macrì

La nube tossica di fluoro, che dal nove di agosto si abbatte sulla popolazione di Portoscuso e nella vasta area che circonda il polo industriale di Portovesme, non è come  taluni pensano, (trattandosi di zona decretata  “ad alto rischio ambientale”), una “calamità naturale”, un “normale evento” della natura, un “cataclisma inevitabile”, ma il prezzo da pagare sull’altare dello sviluppo. Quello che sta accadendo nello stabilimento dell’ALCOA è il frutto di una politica aziendale dissennata, portata avanti dalla multinazionale americana, che ha sacrificato tutto, compresa la manutenzione degli impianti, per ricavare il massimo profitto con il minimo degli investimenti. La RSU e le organizzazioni sindacali, in particolare quelle di categoria, hanno denunciato a più riprese, nell’arco degli ultimi due anni, le condizioni difficili che si stavano determinando dentro gli impianti: la mancanza di nuovi investimenti  tecnologici, il restringimento degli organici delle imprese esterne addette alle manutenzioni e i tagli delle risorse destinate allo scopo. Le denunce in questo ultimo anno di crisi si sono fatte sempre più frequenti e sono sempre state accompagnate dal timore fondato di un disimpegno dell’ALCOA con conseguente fermata dello stabilimento. A fronte di un consumo medio nel mercato nazionale, prima della crisi, di circa 900.000 tonnellate di alluminio all’anno, l’ALCOA ne produce circa 150.000, 1/6 del fabbisogno. Il resto è praticamente tutto importato. Per l’azienda non sarebbe, dunque, un problema mantenere la quota di mercato e soddisfare i propri clienti con le produzioni degli stabilimenti esteri. A monte delle scelte sulla conduzione dell’impianto di Portovesme, da parte della dirigenza, c’è senz’altro anche questa consapevolezza. Le celle elettrolitiche che sono andate fuori uso, determinando il disastro ambientale di cui sono piene le cronache dei giornali e tg regionali, sono al momento 63 su 328 in totale. Sette o otto tra i  migliori  tecnici provenienti da varie parti del pianeta sono al capezzale dell’impianto elettrolitico cercando di bloccare l’emorragia di fluoro ed evitare la fermata dell’impianto che significherebbe la chiusura dello stabilimento senza possibilità di ripresa. La popolazione giustamente è preoccupata, la concentrazione di fluoruri totali rilevati nell’atmosfera dall’ARPAS, nelle rilevazioni tra il 10 e il 19 di settembre, è molto al di sopra della soglia consentita dalla legge. Una cosa ormai pare chiara: l’acido fluoridrico ha già contaminato culture e bestiame, le conseguenze sulle persone si vedranno con il tempo e già gli abitanti degli altri comuni limitrofi al polo industriale cominciano a preoccuparsi e spazientirsi. Se non si pone rimedio a questa situazione nei prossimi giorni altri 800 posti di lavoro sono a rischio. Altre buste paga che vanno via da un territorio, quello del Sulcis-Iglesiente, che ha pagato duramente lo sviluppo industriale in termini di devastazione dell’ambiente. Sono infatti  oltre 2.500 i lavoratori espulsi dai processi produttivi del territorio negli ultimi 12 mesi, superando di gran lunga i fortunati che ancora sono riusciti a mantenere il proprio lavoro. I conti sono presto fatti, 700 in cig dalla Portovesme srl, altri 700 dall’Eurallumina, 200 Otefal, 200 Roockwool, il resto è composto dalle tante e dai tanti operaie e operai che lavoravano nelle imprese di manutenzione o dei servizi. MA non è solo l’acido fluoridrico ad impensierire e preoccupare i cittadini e i lavoratori di questa sfortunata regione del Sulcis, infatti il 23 settembre u.s. i Carabinieri del NOE, su disposizione della Procura di Cagliari, hanno messo sotto sequestro i due bacini di “fanghi rossi”, dove l’Eurallamina fino a qualche mese fa, prima della sua “momentanea” chiusura, stoccava i residui della lavorazione della bauxite (minerale da cui si produce l’allumina, materia base per la produzione dell’alluminio).  Si tratta di due enormi siti, il vecchio esteso per ben 125 ettari e con una altezza impressionante, il nuovo con un estensione di 55 ettari,  in cui sono riversati 18 milioni di metri cubi di fanghi rossi. Un fiume di fango rossastro il 29 marzo scorso ha allagato la strada principale del Polo Industriale, richiamando l’attenzione degli ambientalisti e della stampa, e proprio grazie alle notizie riportate da quest’ultima che la Procura ha affidato ai NOE un’indagine per verificare cosa stesse accadendo. Così è venuto fuori che le acque delle falde sotterrane sono purtroppo ricche di numerosi metalli pesanti quali manganese, fluorite e persino arsenico, oltre il limite stabilito per legge. L’ipotesi più probabile è che i bacini non fossero adeguatamente impermeabilizzati e le infiltrazioni hanno combinato un danno talmente grave le cui dimensioni oggi è difficile quantificare. Si riducono così al lumicino le speranze di ripresa produttiva dello stabilimento dell’Eurallumina, il quale secondo gli accordi dovrebbe riprendere la produzione entro il prossimo aprile.

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