Foglie al vento: quando la solitudine e l’incomunicabilità cedono il passo alla solidarietà sociale e all’amore
2 Gennaio 2024Un fotogramma tratto dal film
[Francesca Pili]
Premio della Giuria all’ultima edizione del festival di Cannes, Kuolleet lehdet (Fallen Leaves per il mercato internazionale, Foglie al vento per quello italiano) è un film di una tenerezza, di una dolcezza, di una delicatezza infinite, nel quale Aki Kaurismäki mette in scena una storia d’amore, materia che, come tema centrale, non aveva ancora trattato, sebbene nella maggior parte dei suoi film ci sia sempre stato spazio per l’amore.
Ed è una storia d’amore in puro stile kaurismäkiano, incentrata su un lui e una lei alle prese con problemi economici, dovuti a un mondo del lavoro ogni giorno più precario, spietato, disumano, alienante, e una precarietà anche esistenziale che rende i protagonisti “foglie al vento”, come il titolo suggerisce; foglie al vento che, fuor di metafora, in un parco della città, vedremo apparire sullo schermo, per la prima volta, in uno snodo narrativo topico, significativo e significante, soltanto a mezz’ora dalla fine del film.
Lui e lei, personaggi che, non a caso, a lungo, nel film non hanno un nome, sono rappresentanti del proletariato di Helsinki (è la quarta volta che sceglie qui i propri protagonisti dopo Ombre nel paradiso, Ariel e La fiammiferaia, tutti girati negli anni Ottanta), e sono persone sostanzialmente sole, che si barcamenano tra lavori senza alcuna garanzia sociale che si perdono con estrema facilità, e rapporti umani superficiali e ridotti all’osso.
La loro è una solitudine, è una incomunicabilità, che, a inizio film, parrebbero non solo esistenziali, ma addirittura ontologiche, e che, invece, troveranno poi il loro antidoto e il loro ribaltamento nella solidarietà sociale tra proletari vessati e stanchi, nell’amicizia, e, ovviamente, nell’amore. Ma non è facile nemmeno quello, sembra che nulla possa avere un lieto fine, fino a un certo punto della storia e dell’esistenza dei protagonisti; poi, invece.
I rapporti umani che si creano sono sempre fatti di pochissime parole e lunghissimi silenzi, e però di gesti concreti che, col sostegno di una sorte benevola (il caso, la fatalità, nel cinema di Kaurismäki, sono sempre presenti e molto importanti) e di una buona dose di resistenza, alla fine, fanno la differenza.
Kaurismäki ha bisogno di soli 81 minuti per raccontare tutto questo.
In un momento storico in cui sembra che i film debbano durare sempre di più, come se la quantità fosse per forza sinonimo di qualità, non c’è una ripresa, un oggetto, un’espressione, una parola, un paesaggio che siano di troppo, in questi 81 minuti, perfetti, sobri, essenziali, depurati da tutto ciò che è superfluo (perché, per Kaurismäki, less is sempre more).
Il cinema del cineasta finlandese, con le sue scenografie scarne ed essenziali, le inquadrature perlopiù fisse e un montaggio che tiene i quadri separati, i dialoghi rarefatti ma, al contempo, ricchi di battute esilaranti e folgoranti, la scarsa connotazione spazio-temporale, continua ad essere all’insegna del minimalismo.
Attorno ai suoi laconici personaggi, che racconta con il suo peculiare e inconfondibile distacco solo apparente e senza alcuna retorica, Kaurismäki costruisce, anzi, ricostruisce, un mondo, oltre che minimalista, stralunato e straniante, dipinto con evidenti e caratteristici tratti retrò: la scelta del colore è all’insegna di un cromatismo insistito, dai toni pastello, che molte volte ricorda i quadri di Edward Hopper.
Un mondo di malinconica, quando non addirittura disperata, rassegnazione, che cede il posto, più che alla speranza, all’azione, descritto con delicatezza, dolcezza, poesia e umorismo.
Umorismo, sì, quel solito umorismo caustico, asciutto, venato di ironia, kaurismäkiano, che si traduce, in questo film, soprattutto in botta e risposta guizzanti, indimenticabili.
Non mancano neanche, e come potrebbe essere altrimenti, le citazioni, i rimandi, le suggestioni, gli omaggi cinematografici (in primis, ma anche letterari e musicali): c’è una scena, che è una vera chicca, tra le più spassose, meravigliosamente paradossale, nella quale i due protagonisti vanno al cinema a vedere I morti non muoiono di Jim Jarmusch, film che racconta una storia di zombies – e la sola scena che vediamo è, per l’appunto, quella degli zombies in gruppo che avanzano, camminando –; finito il film, Kaurismäki mette in campo due degli spettatori presenti alla visione, e, all’uscita dalla sala, uno dice all’altro: «Mi ha ricordato Il diario di un curato di campagna di Bresson», al che l’altro risponde: «A me ha ricordato Bande à part di Godard».
In altre scene, spesso anche solo, semplicemente, attraverso locandine appese fuori dalle sale cinematografiche o alle pareti dei vari locali, omaggia Yasujirō Ozu, Jesús Franco, Luchino Visconti; mentre, nella sequenza finale, in un modo davvero bello, icastico, poetico, commovente, Charlie Chaplin.
Foglie al vento è un film anche politico, come, in un modo o nell’altro, è ogni film di Kaurismäki: se è ovvia e centrale, come già detto, l’attenzione nei confronti della classe proletaria, alla quale i protagonisti e tutti gli altri personaggi appartengono, messa in scena sia come narrazione che come satira sociale, sono da notare pure i riferimenti costanti alla guerra in Ucraina, con le radio presenti nella maggior parte delle scene in cui i due protagonisti sono soli, lei a casa e lui nella pensione per lavoratori nella quale alloggia, sia in una scena in cui sono insieme a casa di lei, che, in sottofondo, trasmettono pressoché sempre notizie sulla situazione, intervallate, talvolta, solamente da una particolare canzone d’amore.
Canzone d’amore che non è la sola musica presente, in un film in cui è parte integrante e fondamentale del racconto, come sempre nel suo cinema, nel quale la colonna sonora comunica e parla anche al posto delle parole che non vengono dette.
Foglie al vento è cinema delle piccole cose, delle grandi emozioni, dei sentimenti come prassi e rivoluzione.
È Kaurismäki che fa il miglior cinema kaurismäkiano possibile.