Fosse rimasta almeno la pietà
1 Novembre 2009Gianni Loy
Fosse rimasta almeno la pietà, ci saremmo risparmiati lo spettacolo meschino che Tremonti e Berlusconi, sopra gli altri, hanno imbastito sul tema del lavoro. Posto fisso si? Posto fisso no? Con il colpo di scena del super presidente del Consiglio che, inaspettatamente, si è schierato per il posto fisso. Proprio colui che, nel 2003, all’indomani dei provvedimenti che, impropriamente, vanno sotto il nome di legge Biagi, aveva dichiarato che si trattava di un provvedimento che tutta Europa ci avrebbe invidiato per la massiccia dose di flessibilità che avrebbe introdotto nel nostro paese. Niente a che vedere con la realtà. Una rappresentazione stile grande Fratello, un fenomeno assolutamente mediatico. Senza nessuna conseguenza, peraltro, presto dimenticata, perché la sfida Tremonti – Berlusconi, che oggi appassiona il paese quasi più del campionato di calcio, si è spostata su altri temi: Irap si. Irap no. Tremonti vicepresidente si, Tremonti vicepresidente no. E così di seguito. Fosse rimasta almeno la pietà. Perché il tema del lavoro, della sua stabilità, della sua durata, del compenso che merita, è tema reale, drammaticamente vissuto da persone in carne ed ossa che vedono all’orizzonte non il traguardo estintivo della prescrizione, ma il fine mese. Io parto dal diritto. E devo ammettere che la nostra Costituzione un diritto al posto fisso non lo contiene. Ma proclama il diritto a lavoro e il diritto a che il compenso di quel lavoro, il salario, sia sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa. Quella stessa Costituzione, però, impegna la Repubblica a rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono una effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita sociale e politica del paese. E se due più due fa quattro, è fin troppo evidente che la Costituzione impone alla Repubblica, e cioè ai governanti di turno, di adoperarsi per creare occasioni di lavoro per tutti e di far si che questo lavoro sia almeno decente. Esperienze storicamente fallite, di Repubbliche “di lavoratori”, un posto di lavoro lo garantivano in ogni caso, a costo di inventarsi attività improduttive o magari, ma non sempre, inutili. Occorre prendere atto che oggi è difficile immaginare, nel contesto economico, ma anche giuridico sociale e culturale, in cui ci troviamo, un’azione politica di creazione di impiego quale che sia per attenuare il disagio della disoccupazione. Due cose, però devono essere dette, una sul piano – apparentemente – economico, ed una sul piano – altrettanto apparentemente – più giuridico. Quanto al primo ricordare che lo Stato non può lasciare, almeno non interamente, al mercato, le decisioni relative all’impiego. Meccanismi di attivazione di occasioni di lavoro finalizzate a superare crisi occupazionali, locali o nazionali, esistono e richiedono intelligenze nella loro esecuzione. Non mi riferisco solo a lavori socialmente utili, eredi dei vecchi cantieri scuola dell’immediato dopoguerra, ma ai meccanismi di divisione e ripartizione del lavoro, alla disincentivazione del cumulo delle posizioni lavorative, all’utilizzo intelligente delle risorse destinate alla grandi e piccole opere infrastrutturali. Al recupero dell’evasione fiscale, che si trasforma in risorse utilizzabili per lo sviluppo, non necessariamente per la “crescita” economica, e che può quindi produrre occasioni di lavoro, consentendo allo Stato di realizzare l’impegno affidatogli dalla Costituzione. E’ materia che neppure provo ad approfondire, richiedendo competenze che, evidentemente , non sono alla mia portata. Quanto al secondo punto, che riguarda non le occasioni di lavoro che potrebbero crearsi, bensì quelle che concretamente già esistono, il problema è di come vengono gestite “giuridicamente” e politicamente. Qui parlare di posto fisso è pertinente. Incominciano ad accettare, tuttavia, il fatto che l’organizzazione delle attività economica contempla non poche ipotesi incompatibili con un rapporto di lavoro “fisso”. Non si può pretendere, in altri termini, che un imprenditore dedito ad attività stagionali occupi dipendenti a tempo indeterminato, né costringerlo ad adattare la propria attività in modo da poter garantire occasioni di lavoro stabili. Separiamo le aspirazioni ideali dalla realtà. Ma il problema non è questo. Il problema è che in una sorta di orgia della flessibilità, che spesso, in realtà, non è tanto flessibilità quanto politica salariale al ribasso – spesso ai limiti o al di sotto della sussistenza – le attività economiche che ben sopporterebbero, ed anzi avrebbero necessità di posti stabili, si avvalgono di improbabili formule giuridiche che consentono di non utilizzare il “normale” strumento giuridico. Persino l’Unione Europea, che si dimostra sempre più interessata alle sorti del capitale piuttosto che a quelle del lavoro, nel disciplinare contratto a tempo determinato o part-time ricorda che il contratto di lavoro tipico, quello preferibile, è pur sempre il lavoro a tempo indeterminato ed a tempo pieno. La verità è che, invece, milioni di lavoratori impegnati in attività che richiederebbero, per loro natura, perché rese in condizioni di subordinazione e con continuità, l’uso del “posto fisso”, garantito contro ipotesi di licenziamento illegittimo, vengono sfruttati con forme impropriamente utilizzate, flessibili e, insisto su questo punto, spesso assai mal pagate. Dopo lo scempio dei co.co.co. l’abuso non è certo terminato con i nuovi contratti a progetto, che contribuiscono a creare un esercito di “falsi autonomi” molti dei quali, in realtà svolgono attività subordinate e continuate senza alcuna garanzia. Come gramigna si diffondono forme che inizialmente potevano esser giustificate se destinate a piccole nicchie di mercato, come il lavoro accessorio, e che il Governo ha recentemente esteso a quasi tutti ed a quasi tutte le attività, che consente di pagare con buoni acquistati al tabacchino questi lavoratori, falcidiando, peraltro, i contributi che dovrebbero servire per la loro pensione. Per non parlare del lavoro nero, spesso sfruttamento allo stato puro. Si tratta di fenomeni tollerati amministrativamente, ma anche culturalmente, che contribuiscono ad erodere lo zoccolo di un “normale” lavoro subordinato di cui anche l’attuale economia avrebbe oggettiva necessità. Due elementi, infine, di questa esasperata flessibilità, vanno sottolineati. Due aspetti che logicamente non si comprendono. Perché, prima di tutto, quando all’imprenditore viene concesso di utilizzare forme contrattuali “flessibili” in luogo del contratto tipico del nostro ordinamento, queste forme contrattuali dovrebbero essere per lui meno onerose. Se ti elimino la presunta rigidità del contratto standard, ti faccio un favore, dovrei farti pagare di più quel vantaggio, ed invece, spesso, finisce che il lavoro flessibile costi di meno. Ciò costituisce un vero e proprio incentivo, tale da spingere (o costringere) persino l’imprenditore disposto ad assumere a tempo pieno secondo le regole, ad utilizzare le forme flessibili perché più economiche. In secondo luogo, come non vedere il vero e proprio scandalo del pubblico impiego, dove la riforma del 2003 ha conservato la possibilità di stipulare ancora i cococo, soppressi nel settore privato perché ormai privi di credibilità. Ha consentito di mantenere i contratti di formazione e lavoro, non meno sospetti. E laddove non sono sufficienti questi strumenti incarichi provvisori, al massimo contratti a tempo determinato. Precariato allo stato puro che, tra l’altro, anche qui, produce un trattamento deteriore in materia salariale. Insomma finisce per produrre più precariato, ed illegalità, il settore pubblico rispetto al privato. Il tema vero del “posto fisso”, a mio avviso è questo. La campagna che mira ad incidere sempre più nella destrutturazione del sistema e che comporta, come conseguenza, anche un attacco alla capacità dei lavoratori di organizzarsi, di produrre azioni e rivendicazioni, è già avanzata. Non rivendicazione astratta di un generico “posto fisso”, astrattamente inteso. Piuttosto rivendicazioni concrete perché milioni di sfruttati mediante forme di evasione o di elusione, possano esercitare i propri diritti di lavoratori ed essere destinatari delle leggi del lavoro che compongono la nostra civiltà giuridica.