Il fotografo e lo sciamano
1 Novembre 2014Graziano Pintori
Quando ho preso fra le mani, per la prima volta, “Il fotografo e lo sciamano” sono stato incuriosito da una foto che sta al centro di nove fotogrammi, posti nella parte superiore della prima di copertina. Alla prima occhiata ho pensato a una semplice nuvola, come altre presenti nella composizione fotografica. Poi, qualcosa mi ha incuriosito e stimolato lo sguardo per scrutare con più attenzione la foto, così mi è apparsa una barba che fa da corona a un viso, in cui gli occhi sono separati da ciò che potrei definire “la gobba” di un naso. E’ un viso di uomo anziano, con le palpebre chiuse in modo sereno, però dà la sensazione che stia ugualmente osservando ben oltre la realtà che lo circonda. Da qui l’accesa curiosità di indagare sul titolo del libro. Con questo spirito ho iniziato a leggere i diciannove brevi racconti che compongono l’opera.
Il libro è l’incontro della luce con l’inchiostro, la parola scritta con l’immagine, è il punto di vista del fotografo sulla fotografia, la quale non è altro che “… una verità filtrata dalla sua coscienza”. La vita insegna che la coscienza matura con l’esperienza che, a sua volta, si apprende con il vissuto di ciascuno di noi; testimoni del nostro vivere sono le linee che solcano i visi, le espressioni che manifestano il modo di essere, gli sguardi che sono le parole dell’interiorità. Questo tipo di esperienza obbliga, a mio parere, il fotografo a essere osservatore e indagatore per svolgere “il compito ……… di rivelare anche le misteriose verità dell’anima”, perché è così che si diventa intermediari della natura che caratterizza il mondo sul quale noi tutti viviamo, nel bene e nel male. Il fotografo deve vedere ciò che altri non vedono, pur essendo (gli altri) testimoni di fatti e fenomeni che si svolgono davanti ai loro occhi. Dalla lettura delle pagine de “Il fotografo e lo sciamano” ho capito che i fotografi alla Coletti sono come i poeti, i quali possiedono la capacità di osservare e descrivere, con la giusta sensibilità, l’invisibile e il visibile, l’infinitamente piccolo com’è il nostro pianeta davanti all’infinitamente grande com’è il vuoto, il silenzio, il buio incommensurabile dello spazio sul quale galleggiamo. Con queste riflessioni sono riuscito a spiegarmi il significato del titolo del libro. Infatti, l’autore sa di essere della stessa materia dell’universo, perciò è cosciente di appartenergli e, come tale, sente abbastanza distintamente “su tumbu”, quel battito universale che Mialinu Pira descrive in “Sos sinnos” (*). Accompagnato da quel battito il fotografo Coletti beve il vino “de sa jovia lardajola e de su merculis de Lissia”; egli beve, urla, corre, canta e s’incanta quando vede “l’uomo nero”. In quei frangenti vive in una dimensione insondabile, come un danzatore delle stelle…un mago. Uno sciamano, di quelli che sembrano rappresentati nelle nostre maschere carnascialesche. Coletti parla anche un altro linguaggio universale, anch’esso legato a “Sos sinnos”, che è quello delle mani che abbracciano, stringono, sudano, nascondono le emozioni del viso. Le mani che si chiudono strette, che diventano pugni che tagliano l’aria, svettano e salutano “su cumpangiu”… che muore. Dario dice “…mi piace osservare, mi piace indagare”, quindi “scrutare verità profonde, quelle che si nascondono dietro le apparenze della realtà“, con questi presupposti la sua fotografia si nutre di sentimenti, amore-odio, di impegno civile. Di conseguenza non deve stupire più di tanto accorgersi che esista un dialogo diretto tra lui e il mezzo fotografico, il quale gli permette di sentirsi libero e muoversi, e volare, e essere testimone diretto di fatti e fenomeni che accadono nelle latitudini del mondo. Dario chiude la sua fatica parlando di Chiara, la figlia che ha compiuto tre anni che dice “sento il rumore della terra”, mentre tiene l’orecchio premuto sul parquet di casa. Rumori che nessuna relazione hanno con quelli provocati dagli adulti che sovrastano quelli dei bambini, che sovrastano Chiara, quando contempla e medita ascoltando i rumori, quelli veri, della terra. La fotografia ha lo scopo di trovare la bellezza per renderla evidente, con questa spiegare e guarire dal dolore, per questo nel giardino di Pinuccio Sciola (**) si è tentato di materializzare la musicalità delle pietre, ossia i suoni della terra, gli stessi che ascolta Chiara con l’orecchio premuto sul parquet di casa.
Dario Coletti con il suo libro ha saputo coniugare la luce con lo scrivere, per questo abbiamo letto le cose belle contenute ne “Il fotografo e lo sciamano”. Egli è dotato di un bellissimo sguardo, parla con le mani, i suoi click non sono semplici scatti o schiocchi, sono l’effetto onomatopeico di “su tumbu”.
(*) Sos Sinnos romanzo bilingue di Michelangelo Pira (Bitti 1928 – Capitana 1978)
(**) Pinuccio Sciola (1942 San Sperate) promotore dei famosi murales del suo paese natale e scultore di fama internazionale soprattutto per le Pietre Sonore
Dario Coletti (Roma 1959) fotografo professionista,collabora con istituzioni e organizzazioni umanitarie italiane e internazionali. E’ coordinatore del Dipartimento di Fotogiornalismo dell’ISFCI di Roma; è un professionista attento alle tematiche sociali, studia il rapporto tra fotografia e antropologia visiva. Ha partecipato a diversi progetti espositivi collettivi sulla fotografia italiana; ha pubblicato diversi libri tra cui La scelta, uomini del buio (2007) sulla vita delle miniere dell’iglesiente. Da oltre venti anni tiene rapporti stretti con la nostra isola.
2 Novembre 2014 alle 03:22
Grazie di cuore a Graziano Pintori che si è calato nel mio lavoro con, sensibilità e competenza.