Frutto amaro
16 Gennaio 2010Manuela Scroccu
“I will gather no more of your bitter fruit”, non raccogliero’ piu’ nessuno dei tuoi frutti amari, cantava Little Steven, mitico chitarrista di Bruce Springsteen, in un suo successo da solista degli anni Ottanta. La canzone passava su VideoMusic e forse gli adolescenti di allora la canticchiavano felici e ignari del fatto che gridasse la rabbia di un contadino sfruttato che lavora una terra che non potrà mai possedere. Era il 1987, i campi del sud d’Italia cominciavano ad essere percorsi da un esercito silenzioso di uomini senza nome che, con il passare degli anni, sarebbe diventato sempre più numeroso. Oggi sono migliaia, in balia del caporalato gestito dalla criminalità organizzata. Vengono dal Ghana, dal Mali, dal Senegal, dal Marocco, impiegati in nero, alla giornata, per una paga che raramente supera i 25 euro. Si lavora dalle 9 alle 11 ore e anche più, a seconda del “padrone”. Il reclutamento avviene la mattina prestissimo, attorno alle 5,00, magari nella piazza del paese. Tutti sanno, tutti vedono, tutti fanno finta di niente. Una carovana di disperati che si muove invisibile per raccogliere i pomodori a Foggia, e poi ad Alcamo per le olive e poi a Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, per la raccolta delle arance. Si organizzano come possono, in vecchi capannoni abbandonati vicino ai campi. Sono “brave e oneste bestie da soma” finché stanno al posto loro: così sono trattati e così sono considerati questi nuovi schiavi dell’Italia contemporanea. Non tutti sono irregolari. Molti hanno il permesso di soggiorno ma l’insensata e inutile normativa italiana in materia di immigrazione costringe anche chi è in regola ad una sorta di clandestinità di fatto. Ogni tanto, però, accade che sotto una costante degradazione cominci a fermentare “il furore della disperazione” di cui parlava Steinbeck nel suo capolavoro “Grapes of wrath”. E’ successo a Rosarno, qualche giorno fa. Al clima già teso, violento e ostile contro i lavoratori immigrati, si è aggiunta la profonda crisi dell’agricoltura del sud. La deflagrazione è stata violenta. Dopo le prime giornate di lavoro, molti agricoltori, conosciuta la valutazione del prodotto, hanno deciso di non procedere alla raccolta. I lavoratori stagionali non sarebbero serviti più e quelli che avevano lavorato non sarebbero stati pagati. Braccia inutili, ormai. Alle proteste dei lavoratori immigrati che reclamavano la paga, alcuni caporali hanno risposto con gli spari: due persone a bordo di una macchina bianca, sicuramente al soldo delle ‘ndrine locali, hanno tirato fuori la pistola e sparato verso gli africani, ferendo un giovane. Non era la prima volta, e la rivolta degli immigrati è esplosa violenta e disperata. E così è scattato anche l’odio razzista del bravo cittadino rosarnese, fomentato certamente anche dalla malavita che ha forti interessi economici nelle aziende agricole della zona, contro gli “invisibili” che improvvisamente hanno acquistato la voce e il corpo della rabbia e della disperazione. La regia della ‘ndrangheta, dietro le violenze, non è solo propaganda degli irriducibili buonisti della sinistra, ma una pista molto concreta seguita dagli inquirenti. Sicuramente, dietro gli avvenimenti della Piana di Gioia Tauro si nascondono decenni di politiche fallimentari, uno sviluppo negato, un Sud umiliato e incapace di liberarsi dal giogo della criminalità organizzata. Sono sempre gli stessi errori, sempre le stesse catene anche se ormai l’espressione “questione meridionale” non è più di moda, dimenticata in qualche stanzino buio della storia d’Italia. Cosa sono, in fondo, quei capannoni dove dormivano gli immigrati a Rosarno, il Consorzio Silano dell’Olio, costruito con i soldi della Unione Europea, e la fabbrica La Rognetta, finanziata con la legge 482, se non due monumenti al fallimento della politica industriale e di sviluppo del mezzogiorno ? Ma non c’è solo questo, non c’è solo quella vecchia Italia, riflessa nello specchio dei fatti di Rosarno. C’è una democrazia in crisi, senza più struttura sociale, in cui ognuno difende il proprio “particolare”. Quest’Italia, che si scopre razzista e xenofoba, che tollera i respingimenti coatti e le nuove schiavitù e chiede sempre più muri e barriere, fa paura. Certo, Rosarno è tornata alla normalità. La rivolta è stata sedata, le baraccopoli sono state ridotte in macerie dalle ruspe della Protezione civile. Le scarpe, gli stivali, le pentole, gli stracci e le lenzuola abbandonati dai disperati occupanti di quei giacigli improvvisati saranno forse bruciati nella discarica per ragioni igieniche. Le arance, invece, resteranno sugli alberi e nei campi a marcire perché, ormai è chiaro, costa meno importarle dall’estero che pagare qualcuno per raccoglierle. Loro, gli immigrati fuggiti dal linciaggio di Rosarno, sono andati via. Alcuni sono stati trasferiti nei centri d’accoglienza delle regioni vicine, altri, la maggioranza, hanno messo insieme il loro povero carico di valigie e sacchi di plastica e sono partiti, chi in treno chi in automobile, per raggiungere altre mete alla ricerca di lavoro. Qualunque lavoro: tagliare, raccogliere, sollevare. Qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Ricominceranno altrove con una nuova consapevolezza. Oggi, chi è straniero in Italia sa di vivere in un paese ostile.