Gentilezza medicina contro l’indifferenza. Intervista a Giuseppe Civati

22 Febbraio 2019
[Alessandra Liscia]

Giuseppe Civati ha presentato il suo libro “Liliana Segre – Il mare nero dell’indifferenza” al Fuaiè del Teatro Massimo di Cagliari martedì 19 febbraio. L’evento si inserisce nella rassegna letteraria sociale Storie in Trasformazione, giunta alla quarta edizione, che durante l’intero anno organizza incontri, mostre e presentazioni declinati a seconda del tema scelto. Il leitmotiv del 2019 ci prende metaforicamente per mano e ci conduce alle “vie della gentilezza” e il primo ad indicarci la strada all’evento di apertura è stato proprio Giuseppe Civati, con la presenza-assenza di Liliana Segre e l’ingombrante ombra nera dell’indifferenza.

Il libro di Giuseppe Civati è un saggio che ci fa conoscere meglio Liliana Segre e la sua costante ricerca della semplicità, raggiunta con il matrimonio, con i figli, e dunque con la famiglia. Per molti anni, come quasi tutte le vittime della Shoah, non ha voluto raccontare in pubblico la sua storia. C’è una sua frase che descrive bene lo stato d’angoscia che ha colpito per lungo tempo lei e tutti quelli che hanno vissuto la sua atroce esperienza. Ma soprattutto esprime al meglio perché per tanto tempo ha taciuto: Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io: una ragazzina reduce dall’inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza.

Giuseppe Civati sceglie di far partire il libro dal presente di Liliana Segre, ossia dalla nomina di senatrice a vita che le è stata data il 19 gennaio di un anno fa dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per farci poi addentrare nella sua vita, nel suo quotidiano impegno politico e privato, nel suo ruolo di testimone sopravvissuta allo sterminio.

E poi c’è l’indifferenza. Quando si parla di indifferenza non ci si può esimere dal menzionare Antonio Gramsci e la sua celebre definizione. Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Proprio da questa frase sono nate le mie domande per Giuseppe Civati che, con grande pazienza, eleganza e diplomazia ha gentilmente risposto a tutte.

Chi sono gli indifferenti di oggi e in cosa si differenziano, se si differenziano, da quelli che Antonio Gramsci odiava?

Gli indifferenti non sono di oggi o di ieri. Nel messaggio di Liliana Segre gli indifferenti siamo tutti noi in qualche modo, è una dura lotta con noi stessi rispetto al tema dell’indifferenza. Ogni volta che non ci prendiamo cura, che non siamo presenti, che siamo assenti nei confronti degli altri, soprattutto quando trascuriamo i momenti in cui gli altri sono discriminati, esclusi o espulsi siamo indifferenti. È un pericolo, una sorta di allerta che Liliana Segre indica e che ci deve far riflettere. È chiaro che uno sull’indifferenza può costruire anche una sorta di strategia politica, ma il messaggio universale è che tutti noi siamo esposti a questo rischio.

Il libro nasce dall’esigenza di ricordare le atrocità commesse contro gli ebrei, quindi atrocità perpetrate da esseri umani ad altri esseri umani. Quanto è stato doloroso per Liliana Segre raccontare e raccontarsi ancora una volta e quanto è stato difficile per Lei ascoltare impotente i suoi ricordi?

Liliana Segre ha scelto come missione quella di raccontare qualcosa di dolorosissimo e di non raccontabile. Quindi è ancora di più apprezzabile quello che io chiamo “il suo lavoro” perché ha incontrato trecentomila studenti delle scuole superiori e perché ha voluto dedicare gli ultimi trent’anni della sua vita a una testimonianza se non proprio quotidiana, poco ci manca. È sempre qualcosa di molto complesso da affrontare, sicuramente per lei ma anche per chi cerca di tenere il più possibile fedele il suo racconto e le cose che le premono di più. Anche per questo non sopporto la superficialità con cui certi argomenti vengono trattati quando si parla. Lei da bambina perse il padre ad Auschwitz, perse tutto quello che aveva negli anni più spensierati per ciascuno di noi, quelli dell’infanzia e della prima adolescenza, scampando prima a un arresto e poi a una deportazione. È qualcosa di disumano e di ingiusto nel senso più profondo e massimo del termine.

Secondo Lei chi affronta queste delicate tematiche in modo superficiale e soprattutto esistono individui che speculano su questi argomenti?

Ci sono ancora i relazionisti, quelli che negano la Shoah come, in generale, i regimi totalitari del nazismo e del fascismo. Questo succede, ahimè, tutti i giorni. C’è anche una mancanza di pudore, che fino a qualche anno fa c’era, nel definirsi fascisti e sappiamo attraverso il racconto di Liliana Segre quanto la responsabilità sia italiana, non solo tedesca, della sua deportazione e della discriminazione del Reich e non solo degli ebrei. La stessa Segre in Senato ha parlato di rom ricordandoci che nei loro confronti la violenza e l’odio fu ancora più esteso. Ci sono parti politiche ed esponenti “intellettuali”, se possiamo ancora definirli così, che su questi temi giocano molto pesante e questo è molto grave per me.

Nel 2015 è uscito il libro intitolato “La memoria rende liberi” di Enrico Mentana con le confidenze di Liliana Segre. Lo ha letto? In cosa si distingue il suo libro da quello di Mentana?

Sì. Il libro di Mentana è scritto insieme a lei e racconta la sua esperienza biografica e quello che è capitato a lei. Io ho cercato di raccontare e inserire questi ricordi biografici partendo alla rovescia, ossia dalla sua nomina come senatrice a vita, cosa che Mentana ovviamente non poteva prevedere. Parlo del suo lavoro in Senato, del valore politico, nel senso più alto del termine, del suo impegno, della sua testimonianza. Quindi è un lavoro molto diverso da quello di Mentana, seppure a lui e ad altri si deve essere debitori o riconoscenti.

Alla presentazione del suo libro ha dichiarato che non esistono in Italia monumenti e opere interamente dedicati alla Shoah. Cosa ne pensa delle Pietre d’inciampo, le installazioni poste sin dal 1992 nelle strade di tutta Europa dall’artista tedesco Gunter Demnig?

Liliana Segre è stata protagonista perché la prima Pietra d’inciampo posata a Milano nel 2016 ricorda suo padre. Proprio nel libro riporto quanto c’è scritto nella Pietra d’inciampo collocata di fronte alla casa dove Liliana viveva. Di fatto si tratta di opere realizzate da un privato e da una Fondazione. Non c’è stato In Italia un percorso istituzionale storico che si sia fatto carico della Shoah. La Repubblica italiana non si vuole fare carico in termini di una responsabilità italiana nei confronti della Shoah, dei crimini della seconda guerra mondiale, come al contrario è stato fatto da privati e da una Fondazione per quanto riguarda il Memoriale della Shoah di Milano alla Stazione Centrale. Credo che questo sia un qualcosa che noi dobbiamo recuperare e rilanciare.

Molti e noti intellettuali italiani (per esempio Michela Murgia nel libro “Istruzioni per diventare fascisti” o lo stesso Enrico Mentana) hanno il timore che con la perdita degli ultimi sopravvissuti si vada a perdere anche la memoria dei fatti. Secondo lei davvero l’umanità si dimenticherà delle torture inflitte nei campi di sterminio, degli estremi livelli che il razzismo abbia mai raggiunto?

No, dipenderà da noi se tutto questo continuerà a vivere e a far parte della nostra cultura.

Quanto è necessario un libro come il suo? Crede davvero che un libro possa essere sufficiente a ricordare quanto accaduto?

Ogni tentativo di cercare di perpetuare la memoria, di offrire uno spazio di riflessione ulteriore e che sappia fare tesoro di quello che ci racconta Liliana Segre, come tutte le altre persone che hanno un vissuto come vittime della Shoah, secondo me è sempre coraggioso. Fortunatamente non è l’unico libro che ne parla, non è l’unico libro che affronta l’argomento, ma si cerca solo di far capire che non è un messaggio semplicemente storico quello che si propone, ma è un messaggio che ha un significato molto importante anche per il futuro perché rappresenta sempre un pericolo che si corre.

Durante la presentazione del suo libro ha suggerito alcune letture di approfondimento, come per esempio “Il fascismo eterno” di Umberto Eco, alcuni testi di Stefan Zweig e di Primo Levi. Quale libro l’ha segnata di più?

Credo che “Il fascismo eterno” di Eco faccia bene a tutti. È una lettura obbligatoria -ride e scherza, poi diventa di nuovo serio-. È una lettura molto preziosa perché ci ricorda che il fascismo non torna sotto le stesse bestie e sotto le stesse modalità, ma torna con atteggiamenti diversi, più subdoli e bisogna saperli riconoscere.

Ultima domanda. Per quanto concerne il razzismo e i diritti dell’uomo, trova affinità tra il passato e il presente?

L’unica affinità, come dice Liliana Segre, è l’indifferenza. Non ci sono analogie troppo strette ed è sbagliato farle, ma quando le persone sono considerate dei numeri e non delle persone appunto e non hanno un nome, ma sono solo un dato statistico, la situazione è molto grave e molto pericolosa, non solo per le persone di cui stiamo parlando ma anche per gli altri che pensano di essere salvi. Con una risposta di chiusura di questa portata, è giusto concludere con il sermone di Martin Niemöller [la cui attribuzione in verità è ancora controversa] letto dal giornalista Jacopo Onnis durante la presentazione, proseguendo dritti verso la gentilezza, scansando da noi l’indifferenza perché questi sono i suoi danni:

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari,

e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei,

e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.

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