Giulio
12 Gennaio 2017[Redazione]
È morto Giulio Angioni, un caro amico e compagno, prezioso collaboratore del Manifesto Sardo. Studioso di antropologia e attento osservatore della società sarda, i suoi impegni universitari non l’hanno mai tenuto lontano dai problemi sociali, né ha mai sottovalutato le questioni legate ai bisogni delle persone emarginate.
Nel ricordarlo ci sembra importante sottolineare un concetto ricorrente nei suoi lavori e nei suoi studi: il convincimento che il punto di partenza, così ribadisce nella presentazione di “Fare, dire, sentire”, di ogni antropologia non possa essere altro dal riconoscere che l’umanità si identifica nella sua diversità, che è uguale nel suo essere sempre diversa sia nei singoli individui che sia nei vari gruppi di appartenenza. Ciò perché l’uomo nasce pronto a vivere mille vite diverse, ma diventa uomo quale i tempi e i luoghi comandano, africano di quattro milioni di anni fa, cinese o egizio di cinquemila anni fa, romano di duemila anni fa, romano di oggi; ma sempre anche col rammarico che avrebbe potuto essere anche altrimenti e quindi con la certezza, il sospetto, la speranza che altri mondi sono sempre possibili.
Ritroviamo questa impostazione in tanti suoi scritti; ne ripresentiamo uno che Giulio ci ha inviato nel corso della sua collaborazione al Manifesto sardo.
Cento teste?
È chiaro il significato del detto che lamenta che noi sardi abbiamo centu concas e centu berritas, cento teste e cento berretti: troppa varietà di opinioni e poca concordia, tot capita tot sententiae, e poi anche pocos locos y mal unidos.
Il detto implica anche disapprovazione per la varietà di copricapi, e forse anche per i copricapi su misura. Le donne in Sardegna, a parte le poche che seguivano in ritardo la moda di Parigi, erano più sobrie e unanimi, con in testa sempre su mucadori, il fazzoletto con le cocche legate sotto il mento. Verso la metà del Novecento era segno di modernità andare senza copricapo, per femmine e per maschi. Ma i maschi hanno continuato a portare molto su barretu, copricapo schiacciato e con visiera appena pronunciata. Una volta l’ho chiesto al mio nonno materno da dove venivano is barretus: da Napoli vengono, forse anche da altri posti, mi ha detto lui che li vendeva. Di vecchie berritas, i copricapi a calza o a berretto frigio, mai viste al mio paese, dagli anni Quaranta in su. Mio padre sì ne ha visti da ragazzo, ma pochi, portati solo da qualche vecchio molto vecchio, perché già prima della guerra del Quindici-diciotto a Guasila nessuno portava più sa berrita, e verso la fine dell’Ottocento sa berrita era già rara.
Se guardo adesso ai copricapi maschili della mia famiglia nel secondo cinquantennio del Novecento, ricordo che mio nonno paterno, morto a novantacinque anni nel ’75, ha sempre portato su barretu, ma che mio nonno materno non portava niente o il cappello floscio, perché era uno più “civile”, era un “artista”, sarto e poi commerciante di stoffe. Il nostro piccolo mondo paesano era complicato anche dal punto di vista dei copricapi maschili, verso la metà del Novecento, anche senza contare i copricapi dei signori forestieri, o quelli dei preti e dei carabinieri. Dopo l’ultima guerra i giovani andavano “a testa sciolta”, mentre i loro padri e nonni non potevano mostrarsi altrimenti che con in testa su barretu. E c’era una corrispondenza coi modi femminili di acconciarsi. Mio padre e mia madre non hanno mai portato né l’uno su barretu né l’altra il fazzoletto, su mucadori. Tutte le mie nonne hanno portato su mucadori. Mio nonno paterno portava su barretu, ma mio nonno materno (il sarto e commerciante) non l’ho mai visto col barretu, o niente o il cappello floscio di città, come mio padre, che però era un contadino. A ben guardare, in fatto di copricapi c’erano molte cose che bisognava sapere e capire, per decidere cosa fare con la propria testa, e non badare solo al freddo e al caldo, al vento e alla pioggia. E per esempio non bisognava meravigliarsi se negli anni Cinquanta o Sessanta un cinquanta-sessantenne di Aritzo veniva a vendere castagne noci e nocciole e pale da forno con sa berrita a calza, magari accompagnato da un figlio ventenne con barretu, magari di velluto, mentre i giovani dei nostri paesi avevano una bella mascagna e niente copricapo. E poi c’erano i modi dei signori e i modi dei paesani: un paesano vecchio portava su barretu, un signore anche vecchio portava il cappello, floscio, o magari di paglia in estate. Portare su barretu significava non portare cravatta ma camicia senza colletto mentre invece portare cappello floscio significava portare cravatta, di domenica. Il piccolo mondo paesano era complicato anche per i copricapi. Ognuno doveva sapere quello che faceva con la sua testa: comandava l’età, la condizione, la provenienza, le aspirazioni, le pretese e altro ancora, in un momento di mutamento rapido dei modi di vivere. Perché se per esempio un ventenne era partito in guerra con in testa su barretu paesano (però già fatto a Napoli), quando tornava poteva adottare la maniera della “testa sciolta” e dire addio per sempre a su barretu o bonettu. Era complicato: appunto, e anche in questo senso concreto c’erano centu concas e centu berritas. E forse è sempre stato così, se i capi nuragici avevano le corna e i loro sudditi forse no, per lo meno non visibili in testa, perché quelle altre corna metaforiche ci sono sempre state anch’esse in molte teste, come diceva un vecchio delle mie parti, perché, diceva, il suo paese, anche con la testa coperta, era come un cesto di lumache dopo la prima pioggia d’autunno.
Già, fa in fretta il nostrano senso comune a sanzionare la diversità delle teste. Che invece è la più grande, e forse anche la più apprezzabile caratteristica umana, in senso proprio e in senso figurato. Diversità che a livello individuale è appunto diversità di opinioni, sempre e dovunque cosa molto varia e complicata. E anche i copricapi lo sono molto spesso, vari e complicati, a dispetto delle unanimità imposte da mode, leggi suntuarie, uniformi e censure di ogni tipo. Tanto più che di questi tempi anche da noi arrivano altre fogge di copricapo, dal velo al burka, sostenute da opinioni molto imperiose e unificanti anche in nome di Dio che si cela in non so quanti velami di luce.
Ciao Giulio
Gli amici e le amiche del Manifesto sardo