Gli effetti delle mutazioni
16 Settembre 2007
Marco Ligas
Diventano sempre più evidenti e profonde le alterazioni che la sinistra ha operato su di sé nel corso degli ultimi anni. Non è stato un segno di lungimiranza considerare la partecipazione dei militanti alla vita delle proprie organizzazioni un intralcio, una procedura che avrebbe ostacolato le decisioni mentre si ritenevano indispensabili scelte tempestive, neanche si fosse dovuto preparare in gran fretta l’assalto a un indefinito palazzo d’inverno. Poi, e questa è stata l’altra perla del rinnovamento, si è assunta l’idea che non sempre il coinvolgimento della base produce scelte efficienti, per cui – è stato detto – i bravi dirigenti, talvolta, devono saper andare contro corrente e prendere decisioni anche senza il consenso dei propri aderenti. Così, via via, i rapporti dei gruppi dirigenti superstiti con i loro iscritti sono diventati talmente leggeri che è persino difficile individuarli. Certamente sono cambiati, non sono più rapporti tesi al raggiungimento di valori che hanno contraddistinto la storia del movimento operaio, sono diventati qualcos’altro: relazioni finalizzate all’acquisizione e al consolidamento di posizioni vantaggiose per la conquista di incarichi istituzionali. Quanto sta accadendo in Sardegna in queste settimane è significativo. Stiamo assistendo a vicende che mettono in evidenza la crisi profonda in cui si trovano i maggiori partiti del centro sinistra. Dopo avere esaltato la bontà del presidenzialismo e dato vita ad una pessima legge statutaria, questi partiti, solo dopo lunghe e faticose trattative, sono riusciti ad esprimere candidati che volessero competere, nelle elezioni per la scelta del leader del PD, con l’attuale presidente della regione. In realtà tutti i dirigenti hanno paura di perdere il confronto e, di conseguenza, il ruolo che rivestono all’interno della loro organizzazione. Anche per queste ragioni le candidature di Cabras e di un certo Spanu non sembrano quelle di concorrenti autentici, ma di vittime sacrificali. Facendo un passo indietro nel tempo viene da chiedersi se mai un partito comunista o la stessa democrazia cristiana, anche nei periodi più difficili della loro storia, si sarebbero tenuti lontani da un confronto con un concorrente-avversario del calibro del presidente Soru. Si poteva rivolgere loro la critica di clientelismo o di monolitismo ma mai questi partiti avrebbero temporeggiato nell’affrontare i loro avversari perché le relazioni che avevano con la società civile erano reali.
Da questa crisi emerge un altro aspetto grave, simmetrico al precedente, da cui possiamo capire come la democrazia rischi involuzioni pericolose. In Sardegna abbiamo un presidente della regione che è stato eletto dalla maggioranza dei cittadini nella speranza che le sue scelte segnassero una svolta decisiva nella politica e nelle relazioni tra i partiti. Le aspettative però sono andate presto deluse: sono emersi nei suoi comportamenti sia un decisionismo fuori misura sia scelte politiche lontane dai proclami elettorali: i temi del lavoro sono rimasti in ombra e non è un caso che i sindacati, pur nelle loro incertezze e inadeguatezze, siano scontenti per le scelte di politica economica. Le stesse iniziative tese a favorire un turismo più equilibrato e rispettoso dei beni comuni hanno riprodotto modelli antichi e la difesa del territorio dall’invadenza delle basi militari, dopo l’esploit su Santo Stefano, è clamorosamente rientrata. Insomma in questi anni Soru ha fatto di tutto per ridimensionare la sua immagine. Ciò nonostante accentua comportamenti da leader populista: non gli basta fare il presidente della regione, si candida anche a presidente del futuro partito democratico. Fa questa scelta con disinvoltura e determinazione come se gli impegni che questi due incarichi comportano si possano svolgere con facilità e contemporaneamente. Insomma ci troviamo di fronte a un caso di presunzione e di attaccamento al potere che sconfina nella megalomania e perciò non ammette giustificazioni. La direzione politica di un’istituzione non può essere affidata ad un uomo solo, è necessaria una direzione collegiale che, in modo partecipato, sappia individuare priorità politiche e al tempo stesso si adoperi per realizzarle. Nella situazione in cui ci troviamo oggi questa ipotesi può diventare praticabile solo al di fuori delle attuali strutture del potere: né i gruppi dirigenti di ciò che resta dei partiti, né l’attuale presidente della regione possono rappresentare alternative credibili, essendo gli uni e l’altro troppo invischiati nelle vecchie e nuove pratiche clientelari. Come si usa dire, serve uno scatto che ci allontani dall’area circoscritta in cui siamo chiusi, e non bisogna perdere tempo perché si corre il rischio che la crisi della politica si trasmetta, allargandosi, nella società civile dove già si avvertono segnali inquietanti di malessere. Chi non intende liquidare i valori e le conquiste del movimento operaio e vuole ribadirne la validità e l’attualità ha un compito ancora più impegnativo da svolgere: deve adoperarsi per dare un contributo decisivo all’avvio di questo processo e al tempo stesso deve pensare alla riorganizzazione di questa sinistra mettendo da parte litigiosità e tendenze a far valere primati per meriti pregressi.