Gli Stati uniti d’Italia
10 Dicembre 2022[Francesco Casula]
Un bel volumetto degli storici Renzo Del Carria e Claudio de Boni (Gli Stati uniti d’Italia Antologia dei Federalisti Italiani. Casa Editrice G. D’Anna, 1991) documenta con puntigliosità e rigore che erano federalisti la gran parte degli intellettuali dell’Italia preunitaria (da Cattaneo a Ferrari, da Mamiani a Rosmini, da Balbo e Gioberti ecc.), come dell’Italia postunitaria (da Salvemini a Trentin ai sardi Bellieni e Lussu).
Di questi non conosciamo niente o quasi. Alcuni sono moderati altri democratici e progressisti ma tutti sono uniti da una comune analisi: la penisola italiana non era una realtà unitaria, perché dalla protostoria agli albori del Risorgimento, era stata sempre un’entità geografica e mai un’entità politica. E anche quando negli ultimi 500 anni era diventata un’entità culturale, lo era stata solo per una ristretta èlite, per la quale il toscano filtrato da Dante, Petrarca e Boccaccio, era diventata la lingua letteraria «franca», in graduale sostituzione del precedente latino.
Ma fino agli albori del ‘700 i vari popoli della penisola italiana costituivano delle «etnie regionali» fra loro ben distinte per usi costumi lingue storia e geografia. E’ questo il motivo principale che porta la gran parte degli intellettuali dell’Italia preunitaria a sposare le tesi federaliste e non quelle unitariste e centraliste, convinti com’erano che solo la forma statuale federalista avrebbe salvaguardato l’autonomia, la diversità e la particolarità di ogni etnia, oltre che la libertà di ogni singolo cittadino.
Fra i moderati, uno degli esponenti più lucidi è Cesare Balbo che scrive: ”La Confederazione è l’ordinamento più conforme alla natura e alla storia italiana perché la penisola raccoglie da sé, da Settentrione a Mezzodì, province e popoli quasi così diversi fra di loro, come sono i popoli settentrionali e più meridionali d’Europa, ondechè fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste province”.
Sullo stesso versante si muove Giacomo Durando: noi siamo sette nazioni o, se si vuole, sette subnazionalità provinciane. Concentrarsi in una sola non è possibile l’italiano insulare non è lo stesso che l’eridanio o l’apennino. Il siciliano e il sardo sono, se così posso esprimermi, di una pasta differente da quella di un lombardo”.
Sulla divisione storica si sofferma anche Terenzio Mamiani: “L’Italia è da secoli divisa e rotta in più stati e ha fra essi poca o veruna comunanza di vita politica, per la qualcosa non potendosi togliere di mezzo le divisioni e volendo pure che l’Italia sia una quanto è fattibile mai, rimane che noi ci acconciamo a quella forma di unità che sola può coesistere con la pluralità degli stati, cioè a una confederazione”.
Fra i democratici, Carlo Cattaneo insieme a Ferrari, è l’esponente che con maggiore coerenza sviluppa il suo pensiero ponendo l’accento sul nesso inscindibile fra federalismo e libertà. Così scrive: “Non potersi conservare la libertà se il popolo non vi tiene le mani sopra. Sì, ogni popolo in casa sua sotto la sicurtà e la vigilanza degli altri tutti io credo che il principio federale, come conviene agli stati, conviene anche agli individui. Ognuno deve conservare la sua sovranità personale, ossia la sua libera espressione la federazione è la sola unità possibile in Italia…è la pluralità dei centri viventi ed è meglio vivere amici in dieci case che vivere discordi in una sola. Dieci famiglie ben potrebbero farsi il brodo a un solo focolare, ma v’è nell’animo umano e negli affetti domestici qualche cosa che non si appaga con la nuda aritmetica e col brodo”.
Nella polemica con gli unitaristi e i centralisti insiste Giuseppe Ferrari secondo cui: “L’unità italiana non esiste se non nelle regioni della poesia e della letteratura e in queste regioni non si trovano popoli e non si può ordinare verun governo la realtà italiana è la divisione storica degli stati, il diritto di ogni italiano è di vivere libero nei propri stati. E a ogni stato la sua assemblea, il suo governo, i suoi ministri, la sua costituzione. La rivoluzione conduce necessariamente le repubbliche a una federazione repubblicana”. E a fronte delle accuse di «divisione» Ferrari rispondeva: ”Fu sparso l’errore che la Federazione volesse dire divisione, dissociazione, separazione. Ma la parola federazione viene da foedus, vuol dire patto, unione, reciproco legame”.
Sullo stesso terreno, polemizzando con Cavour, Enrico Cernuschi afferma: “Improvvisata in Italia l’unità, col sopprimere gli stati, sopprime tutti quanti i centri di emulazione, non ne vuole che uno solo, fittizio e odiato da tutti; essa offende gli interessi, le consuetudini e i sentimenti; scompone, in una parola, tutto intero il paese senza poterlo ricomporre perché ci vuole lentezza assimilante o violenza decisa a ricomporre un paese…la federazione invece mantiene le autonomie, lascia ogni stato padrone del proprio governo, vivifica le emulazioni, acqueta gli interessi”.
Per il siciliano Francesco Ferrara: ”La Sardegna è una specialità alla quale ciò che di più pernicioso può farsi è il volerla costringere ad una assimilazione completa di forme, contrastate a ogni passo dalla natura. Il Piemonte nella sua condizione di possessore di un’isola, può dirsi già fortunato dell’avere incontrato nel buon senso dei Sardi una docilità, anzi una vogliosità di fusione, che non è molto agevole rinvenire nell’indole dell’isolano; ma non ci illudiamo perciò: una nota di gratitudine, uno slancio di patriottismo non bastano a mutare il suolo, il clima, il carattere, i bisogni, le attitudini individuali e produttive, il dialetto, le conseguenze di un lungo passato.
La grande utopia del secolo è questa delle fusioni: nulla di più agevole che congiungere e assimilare in belle frasi scappate nel calore di una improvvisazione politica ma nulla di più puerile che l’illudersi sull’effetto reale delle belle frasi. Nella natura materiale non si combinano che molecole affini. Nella natura umana, se vi ha mezzo di combinare due popoli, è quello di non sforzarne le specialità”.
Infine i federalisti sardi. Per tutti e quattro (Pilia e Cao, Lussu e Bellieni) la lotta contro il centralismo politico si traduce anche in critica del decentramento fino ad allora praticato, perché illusorio oppure limitato al solo momento amministrativo, senza respiri di politica regionale che sorgano dal basso e non siano mere concessioni alla “periferia” provenienti dall’alto.
Scrive Cao: “La compartecipazione politica della Sardegna nello stato italiano, non dovrà essere limitata all’opera insufficiente di una scarsa dozzina di emissari, ineluttabilmente destinata a disperdersi nella baraonda parlamentare, ad essere irrisa e travolta nella corrotta burocrazia della capitale e vinta dalla sopraffazione dell’affarismo politico degli industriali e degli agrari occorrerà il ristabilimento di speciali ordinamenti regionali, consoni alla loro natura etnica e allo sviluppo secolare del loro diritto”. E tutto ciò – per Cao – sarà possibile solo “con l’annientamento dell’attuale stato sfruttatore, parassitario, apoplettico, soffocatore”.
Mentre Pilia sostiene: ”La forma federale repubblicana apparve allora ai migliori dei nostri l’unica che potesse conciliare le esigenze della libertà e indipendenza sarda con le ragioni del movimento unitario italiano; e le pagine immortali del Tuveri e del Brusco-Onnis sono la prova di questo stato d’animo diffuso nell’Isola nei primi decenni dopo l’Unità d’Italia”.
Per Bellieni il riordinamento in senso autonomistico della regione deve dar luogo all’instaurazione di uno stato federale perché “la macchina statale del presente ci soffoca e ci opprime”.
Lussu infine scrive che “Non basta più dire «autonomia» bisogna dire «federazione». E continua: ”Il Federalismo non è certo una miracolosa «acqua di catrame» fatta per sanare tutti i mali, ma non v’è ombra di dubbio che la cosiddetta crisi della democrazia moderna, è in gran parte prodotto del centralismo statale e il centralismo statale ha fatto fallimento nel nostro Paese”.
A mio parere ha fallito anche oggi non solo ieri ai tempi di Lussu.