Graziano Mesina: riflettendo sull’epilogo
15 Aprile 2025[Gianni Loy]
Non avrei voluto commentare la morte di Graziano Mesina, per non rischiare di trovarmi tra i tanti coristi che oggi, alla sua morte, replicano un canto funebre già cantato, nel bene e nel male.
Con la morte di Graziano Mesina, dopo aver completato le ultime note di cronaca, consegniamo alla storia un altro eroe. Eroe “nostro” e non solo. Una storia complessa, dolorosa, triste, ancora da comprendere sino in fondo – probabilmente – eppure scritta con linguaggio epico.
Ricordo perfettamente quel marzo del 1968, quando fu arrestato, al termine del lungo primo tempo di latitanza, in una Sardegna martoriata da posti di blocco e tappezzata dai manifesti, taglie, che promettevano milioni di ricompensa a chi avesse fornito aiuto per la sua cattura. L’estetica non era molto dissimile da quella che accompagnava le nostre serate al cinematografo – per chi se le ricorda – tra gli eroi western del mito americano che – sotto il travestimento dello spettacolo – sottilmente insinuavano che il genocidio dei nativi da parte dei coloni americani fosse un evento quasi naturale.
L’epica ha bisogno di un eroe, e gli eroi son tutti giovani e belli, e se la storia regge, a costruire un mito si fa in fretta. Da qualche anno, oltretutto, avevamo a disposizione anche un autorevole fondamento giuridico, il codice della vendetta barbaricina, una teoria che aveva trovato buona accoglienza tra gli intellettuali sardi, sebbene non fra tutti – tra diffidenti mi piace ricordare Antonio Romagnino –. Aiutava anch’essa a fondare il mito di una resistenza contro le forme di neocolonialismo che attentavano ai valori consuetudinari di un popolo, o di una sua parte, come la pastorizia. I Governi che si erano succeduti a Roma, sin dai primi decenni del secolo scorso, con il beneplacito delle autorità locali, avrebbero voluto estirpare la pastorizia, e la sua cultura, nella convinzione di poter così estirpare la piaga del banditismo, che non era fenomeno nuovo – visto che nell’agiografia locale già comparivano famosi banditi – ma che in quegli anni mostrava segni di particolare recrudescenza.
Ecco che, date queste premesse, nonché il risveglio un sentimento di ribellione antistatale, la nascita di gruppi indipendentisti, i tentativi – certi – di reclutare settori del banditismo nel vagheggiato progetto separatista e rivoluzionario della Sardegna – non si dimentichi Gian Giacomo Feltrinelli –, Graziano Messina possedeva un physique du rôle particolarmente adatto.
Ricordo i bambini di Orgosolo che, dopo il suo arresto, mitizzavano quel loro compaesano. Né so se il cronista che – allora – raccoglieva le loro confidenze, abbia aggiunto qualcosa di suo. Certamente, però, l’idea che la sua azione avesse a che fare con la resistenza di un popolo contro la pretesa neo-coloniale dello Stato – che già preparava il tentativo di confisca del cumonale di Pratobello e l’industrializzazione, mancata, di Ottana – si è diffusa ed è stata acquisita, con leggerezza, dall’opinione pubblica.
Le persone anziane che oggi, dopo la sua morte, rispondono al corrispondente della Nuova Sardegna, potrebbero essere tra gli alunni delle elementari che, quasi sessant’anni fa, eleggevano Grazianeddu a loro lìder.
C’entra ancora il codice barbaricino, quando il primo risponde: «Eh, tutto è successo da quando ha vendicato il fratello», e c’entra ancora il riconoscimento del valore, quando il secondo gli fa eco: «Non era un uomo cattivo». E sorge un dubbio, quando sulle pagine dell’Unione sarda, qualche compaesano afferma, sicuro di sé, che “per noi non era un bandito”. E c’entra il mito, quando la prime turiste che sbarcano nella Costa Smeralda, inseriscono tra i loro progetti quello di andare a fargli visita nel covile dove si nascondeva, o quando il mancato rientro in carcere dopo un permesso diventa una romantica “fuga d’amore”, o quando i turisti invocavano la grazia di poterlo incontrare. Chissà perché, magari solo per una foto ricordo da esibire dopo la vacanza.
Poi un bel soprannome, ispirato alle sue “celebri” evasioni: la primula rossa, oggi declinato con l’aggiunga di una breve proposizione: la ex primula rossa.
Solo che Grazianeddu, non aveva proprio niente da spartire con quel nobile inglese – partorito nel 1905 dalla fantasia della baronessa Emma Oroczy – che combatteva per tutt’altra causa: rischiava la vita per liberare i nobili francesi destinati alla ghigliottina da Robespierre, e aiutarli a trovare rifugio in Inghilterra, e al termine di ogni impresa abbandonava un biglietto da visita: “Scarlet Pimpernel”.
Non avrei voluto commentare il finale della storia di Graziano Mesina, complessa e intrigante, per non rischiare di essere frainteso quando affermo che l’enfasi da sempre riservata alla sua storia, rischia – seppur involontariamente, spero – di farlo apparire come modello di reazione alla repressione e, quindi, di legittimare le sue azioni.
Che le Barbagie siano state oggetto di interventi repressivi del genere neocoloniale, è indiscutibile. Solo che il fenomeno del banditismo – peraltro risalente, ma acuitosi in quegli anni – non può semplicisticamente considerarsi una risposta politica e, tanto meno, una risposta giusta e opportuna.
Regnava, probabilmente, l’idea di una “giustizia” che non era quella praticata dallo Stato con i suoi strumenti di repressione. Solo che il banditismo, seppure in presenza di qualche avance da parte dei nascenti movimenti politici rivoluzionari, non è stata, né avrebbe potuto essere, la risposta.
All’interno di quella stessa cultura maturavano ben altri valori, in sintonia con le idee che si diffondevano nel resto del mondo, in sintonia con i valori di pace e di giustizia. Non isolazionismo ma collaborazione: pastori e studenti, uniti nella lotta. Nel progettare la rivolta, decidevano di far tacere le armi, sceglievano lo strumento della non violenza, la resistenza passiva. Contribuivano così, anche al ridimensionamento di uno stereotipo, quello della balentìa, dai confini così incerti da sconfinare, non di rado oltre i limiti del consentito.
Di lì a poco il popolo di Orgosolo, a Pratobello, di fronte all’incredulità dei più, avrebbe sconfitto lo Stato.
Ciò che mi preoccupa è idea che attraverso l’enfasi, la leggenda, il mito, il modello rappresentato dalla vicenda umana di Graziano Mesina, possa rappresentare un modello, un valore positivo, soprattutto per i più giovani. Che possa avallare il principio, in rapido progresso, secondo cui quel che conta, in definitiva, sia il successo. Che chi raggiunga la notorietà, non importa in quale campo, nel bene e nel male, possa permettersi ogni cosa.
Vale per un bandito, come vale per uno sportivo, un politico, un capo di Stato o chicchessia. Non molto tempo fa, in occasione della morte di Diego Maradona, mi sono dovuto dissociare dal trionfalismo iperbolico che avrebbe voluto innalzarlo agli onori dell’altare, dichiarando di non essere disposto ad adorare quel Dio.
Perché, anche il quel caso, il fatto che Diego Maradona sia stato uno dei più grandi interpreti del gioco del pallone non consente di proporlo quale modello, soprattutto ai giovani. Il messaggio che passa con l’esaltazione – a volte persino fanatica – di chi, nel proprio campo, ha saputo primeggiare, è che il successo sia la chiave di tutto. Mi viene mente con quanta deferenza Luciano Lutring, “il solista del mitra”, ma ribattezzato anche, come tanti altri, “il bandito gentiluomo”, veniva invitato ad esporre al pubblico la sua dottrina.
Non credo, in definitiva, neppure che l’abilità o il gesto generoso di chi si pone al di là della legge possa compensare il disvalore del delitto.
C’è da tener conto, evidentemente, anche di altri fattori. Le esperienze di vita segnano profondamente, possono decidere la nostra sorte. A volte, mi chiedo quanto possa contare la fortuna. Mi torna spesso alla mente una vecchia canzone portata al successo da una giovanissima Joan Baez: There But For Fortune, scritta nel 1963 da un giovane, Phil Ochs, suicidatosi 10 anni dopo: “Mostrami il detenuto – cantava – ed io ti mostrerò mille ragioni per cui è solo un caso se al posto suo non ci siam noi”.
Sono consapevole del fatto che esiste un contesto, persino di non aver alcun merito personale se, almeno sino a questo momento, credo di aver camminato per la retta via. Per lo stesso motivo, non attribuisco colpa alcuna a quanti, per dirla con Orazio, hanno superato il limite “al di qua o al di là del quale non può risiedere il giusto”. Anzi, non di rado trovo giustificazioni: povertà, mancanza di istruzione, ambiente sfavorevole, e poi cerco di mettere in partica l’ammonizione di Francesco: chi siamo noi per giudicare? Lungi da me la semplificazione, manichea, secondo la quale dentro stanno i cattivi e fuori stanno i buoni. Mi capita di incontrare, al di là delle sbarre, splendide persone, e in libertà spregevoli individui. Insomma: non credo negli automatismi. Chi ruba, rapina, o persino uccide, non è necessariamente una persona cattiva. Così come chi si astiene dal furto o dal sequestro di persona, non vuol dire che sia una brava persona.
La dignità della persona, infine, prescinde del tutto dalle responsabilità e dalla colpa, tutti ne hanno diritto, indipendentemente da qualsiasi condizione, comportamento o merito.
Il diritto di Graziano Mesina ad un trattamento dignitoso nell’ora della morte è stato gravemente violato. È stato opportuno ricordarlo. Indipendentemente dalla condanna che gli era stata inflitta, egli era titolare del diritto – non solo etico – ad accomiatarsi da questo mondo in maniera dignitosa. Non solo – come ha commentato la garante dei detenuti – “non c’è stata pietà né senso di umanità” ma è stato violata la norma che vieta ogni trattamento crudele, inumano o degradante. I tribunali internazionali, non da oggi, non risparmiano al sistema carcerario italiano l’accusa di tortura per violazione dell’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali.
Se fosse soltanto una vendetta di Stato nei confronti di Graziano Mesina, sarebbe un episodio riprovevole ma isolato. Ed invece si tratta di un sistema, cieco, che in dispregio di quanto proclamato dalla Carta costituzionale, non fa altro che inasprire le pene e renderle ancor più insopportabili, solo per offrire a incauti elettori una fragile illusione di sicurezza. Un accanimento contro i più fragili che, tutti insieme, dovremmo contrastare.
In conclusione: non credo che il banditismo di Graziano Mesina contenga alcun valore positivo, e spero non diventi un’icona della nostra terra.
Sulla tomba di quella persona depongo un fiore.