Oro nero, incenso e mirra
30 Aprile 2012Graziano Pintori
Dopo il disastro di Cernobyl, 26 aprile 1986, e il referendum del 1987, l’Italia abbandona l’uso dell’energia nucleare. Nel 1988 viene varato il PEN (Piano Energetico Nazionale). Da allora si “generano” una miriade di leggi, dlgs, delibere cipe, direttive per dare vita al PEAR ( Piano Energetico Ambientale Regionale). Nella nostra isola il PEAR non è stato ancora adottato, però si procede al rafforzamento di certe infrastrutture per l’interconnessione con le reti transeuropee dell’energia, pensando, in modo non del tutto peregrino, ad una “Sardegna Piattaforma Energetica”. È così che nasce il cavo sottomarino di grande potenza Sardegna-Penisola-Italia (SAPEI). Più in là si progetta il metanodotto GALSI (Gas Algeria Sardegna Italia). Ovviamente non si trascura di investire denaro per nuove FER (Fonte Energia Rinnovabile), non si trascurano studi e ricerche nelle università di Cagliari e Sassari, si incentivano il Sotacarbo per l’estrazione dell’idrogeno dal carbone, il Cras per lo studio delle colture vegetali ad uso energetico, il Crs4 per l’energia solare ad alte temperature –termodinamica.
Oggi, senza piano energetico e disordinatamente possiamo dire che in Sardegna l’energia è prodotta da 17 impianti idroelettrici, altrettanti termoelettrici, 31 siti eolici e 7630 fotovoltaici, un surplus energetico che costa 109 euro a megawatt, contro i 66 euro della media nazionale.
L’alto costo è dovuto al fatto che tutto il sistema energetico sardo continua a dipendere per il 65 % dal petrolio e poco meno di un terzo da combustibili solidi. Così si spiega il poco entusiasmo dell’ENI e della Saras nei confronti del Galsi, e non solo. Inspiegabile poi l’atteggiamento della multinazionale tedesca E.On che investe gli utili ricavati a Fiumesanto in Brasile. La E.On decide unilateralmente di non costruire il 5° gruppo per il miglioramento del polo energetico più importante della Sardegna, in sostituzione dei primi due obsoleti, inquinanti e spreconi. Poi c’è la multinazionale americana Alcoa che con l’Euralluminia lamenta la scarsità del vapore. Poi da Portovesme a Fiumesanto, via Ottana e Macomer, ci sono diecimila ex operai, tra cassintegrati e licenziati, dell’industria, che battono i caschi di sicurezza prima sull’asfalto davanti alla Regione Sardegna, poi davanti al Ministero del Lavoro e Sviluppo a Roma.
Per ricominciare sempre da capo. Come al solito, dinnanzi a questo caos la classe politica sarda sta ai margini delle grandi manovre degli imperi dell’energia mondiale. Sono questi che impongono alti costi e che mantengono depotenziati, ormai abusata la scusa di difficoltà tecniche, gli impianti di produzione.
Si spiega in questa maniera perché il carbone Sulcis è impastoiato nelle burocrazie gestionali, nonostante le potenzialità energetiche racchiuse nel suo antico cuore geologico. Così si spiega il Far West sull’eolico e i motivi per cui il Galsi non decolla.
Così capiamo perché il Sapei non risponde alle attese energetiche tanto conclamate. È noto che tutto dipende dai governi nazionali, da accordi comunitari e trattati internazionali e, non ultime, dalle non trascurabili attività delle lobbies affaristiche: un insieme di soggetti che evidentemente hanno tutti, indistintamente, interesse a tenere l’Isola subalterna, come una gigantesca vacca da mungere. Fa specie che il tutto venga agevolato da noi sardi, incapaci di pretendere e di imporre un nostro piano energetico degno di questo nome, teso a costruire la “Sardegna Piattaforma Energetica”. Acconsentiamo invece che la nostra terra venga utilizzata come un ponte assoggettato agli intrecci affaristici internazionali, resi succubi degli umori del mercato energetico. Ci impongono bollette fra le più onerose d’Italia. E allora? Come al solito, il sardo è il miglior alleato de “sos istranzos irfruttadores” e “su pejus inimicu de sa Sardigna”. Il nuovo miraggio arabo viene visto come la panacea di tutti i mali isolani.
Gli Al Thani sono gli arabi del Qatar a capo di una holding da 65 miliardi, straricchi di petrolio e soprattutto di gas, a loro modo attratti dal turismo imprenditoriale della Costa Smeralda, già di loro proprietà. All’opulento Qatar, primo produttore al mondo di gas liquido, si potrebbe pensare di affidare anche l’annosa questione energetica isolana: per avere un unico interlocutore e sancire la fine delle escursioni piratesche dei mercanti di energia. L’originale interconnessione energia-turismo avrà un prezzo, che potrà essere assolto,senza patemi, con la solita accondiscendenza e benevolenza sarda, tesa a facilitare sempre i progetti, il determinismo, il savoir- faire “de s’istranzu”.
Il prezzo potrebbe essere la mancata adozione del piano energetico ambientale, un modo per evitare ulteriori intralci burocratici alla holding araba. Sempre con la nostra solita benevolenza, possiamo inoltre farci interpreti della psicologia turistica affaristica di questa strana gente, che conosce come luogo di vita il deserto e come tale per loro sono tabù l’ambiente, l’ecosistema, i piani paesaggistici ecc. Al loro cospetto, le regole naturalistiche diventano pura retorica se dovessero impedire il fluido corso degli investimenti.
A noi sardi non resta perciò che apprendere dai nuovi genitori adottivi la loro religione: adorare non tanto il dio islamico, ma sempre più il dio denaro.