Habeas corpus
1 Giugno 2022[Paolo Deidda]
Con questo articolo, l’autore, attraverso una riflessione con connessioni di politica e filosofia affronta il tema delle modalità attraverso cui il dibattito mediatico e politico ha trattato il tema della pandemia e della guerra.
Non ci manca la comunicazione, al contrario, ne abbiamo anche troppa, ci manca la creatività. Ci manca la resistenza al presente.
Gilles Deleuze, Felix Guattarì
Se uno non si ribella, si scompare!
Antonino (paziente psichiatrico)
Forse è ancora troppo presto per riflettere sull’insieme dei discorsi che hanno investito il corpo di ognuno di noi. Un corpo a rischio! Un rischio invisibile allo sguardo. Reso sostanza nei comportamenti e nei dispositivi di disciplina dei respiri, dei movimenti e dei movimenti nei luoghi. Mano a mano lo spazio della vita si ridisegna in una urbanistica fisica ed affettiva che ritaglia spazi disomogenei di libertà graduate in funzione dell’appartenenza o della dis-appartenenza dei corpi al sistema sanitario. E quello spazio è anche un linguaggio e quel linguaggio costituisce irresistibili mondi in contrappunto; troppo immediati per non esserne gravitati. Eppure! Eppure bisogna resistere.
Poche volte come in quest’occasione le zone grigie del dubbio sono state così sottili. E’ tutto troppo chiaro! È tutto troppo ordinato e tutto troppo coerentemente ordinato tra chi sta qua e chi sta là e ogni qua e ogni là non ha bisogno di altro; non ha bisogno di dire o di vedere altro proprio perché c’è l’altro che nel dire quello che dice dà sostanza e sostegno pieno al mio dire creando così un’autosufficienza appagante nell’ascolto senz’altro. La verità dell’uno alimenta in contrappunto la verità dell’altro. Senza il dire dell’altro il mio stesso dire si vanifica! E’, per contro, attraverso il dire dell’altro che il mio dire si vivifica. Verità contrapposte e l’esser così come sono nella relazione corpo a corpo le incastra in un discorso senza fine. È una baruffa tra marinai che stanno a babordo della verità e marinai che stanno a tribordo della verità, ognuno con la propria, senza alcuna mediazione possibile e l’esercizio della libertà di quei dire, si perimetra in quell’angusto spazio indifferente al mercantile alla via.
Negli ultimi anni assistiamo continuamente a questi giochi di specchi e quegli specchi riflettono verità temporanee; effimere; verità in scadenza che, tuttavia, hanno il tempo di soggettivarsi uscendo dallo specchio per incarnarsi in verità che fondano, quantomeno, un agire sociale e quando il loro ciclo di vita detta-limentato da agende politico-mediatiche giunge al termine, perviene puntuale un’altra verità e così, per ricordare quelle più recenti, la verità del politico garantito a fronte di un cittadino a rischio, cede il posto alla verità dell’immigrato che erode spazi di sicurezza al cittadino in pericolo e quella dell’immigrato alla verità di corpi a rischio e così via e dando così il via alle messe di verità in contrappunto. E quel gioco di specchi contrapposti attrae su di se la quasi totalità del dire possibile precludendo ogni altro possibile dire rendendo quei dire se non l’unica, sicuramente quella più attrattiva, forma di partecipazione sociale dei corpi a rischio.
Eppure proprio per questa caratteristica c’è qualcosa non va! Qualcosa non torna! E’ come entrare in una stanza in cui normalmente siamo appunto di stanza e ci rendiamo conto che qualcosa manca, ma non riusciamo a capire cosa manca. E così cominciamo a guardarci intorno alla ricerca di quel qualcosa che manca. Sembra tutto naturalmente in ordine; tutto naturalmente coerente; tutto naturalmente troppo coerente. Eppure! Eppure proprio per questo qualcosa non va. Ci fermiamo e con lo sguardo cominciamo a frugare ogni angolo alla ricerca di un’assenza; di una dissonanza che infine non si trova perché lo sguardo non riesce a volgere ad altro. Eppure è proprio lì che dovremmo andare con lo sguardo alla ricerca di quel qualcosa che non c’è ed proprio quel non esserci della cosa che feconda lo sguardo creando un vuoto; creando un’assenza, un vuoto e quel vuoto è un vuoto qualificante; è il luogo possibile in cui esercitare l’autonomia del pensiero al di sopra o al di sotto o comunque di lato da quel dire dei corpi a rischio in contrappunto.
Nell’osservare l’opera del vasaio siamo attratti dal pieno del vaso; da quel confine nello spazio fatto di argilla modellata in guise diverse. Quando osserviamo un vaso, osserviamo il suo pieno! Eppure non è quello che crea il vaso. Il vaso c’è perché c’è il vuoto e quel vuoto è lo spazio dell’accoglienza della sua esistenza. Senza vuoto non c’è vaso! Il vuoto del vaso è un’assenza che soggettiva. Il vaso si struttura intorno alla verità del suo vuoto che lo identifica ritagliandosi uno spazio dal suo pieno in cui poter esercitare la propria natura.
Così è per la libertà che si struttura intorno ad un vuoto come spazio di autonomia del pensiero che si de-situa dal tribordo e dal babordo della verità dei discorsi intorno, in questo caso, ai corpi a rischio.
Ho usato la metafora del vaso perché mi pare quella più adatta; più adeguata a descrivere lo stato attuale dei discorsi intorno ai corpi a rischio e forse anche del dire politico tout court di cui quello dei corpi a rischio è un frammento. Sempre più spesso l’agenda politica e mediatica, oltreché il loro dire, alimentano progressivamente il pieno di quel vaso di ciascuno di quei corpi a rischio, erodendo sempre più frequentemente e progressivamente il suo vuoto e quel vuoto è lo spazio dell’autonomia di pensiero. Un suobastione. Ogni discorso! Ogni riflessione! Ogni e qualunque dire è un dire intorno al corpo e sul come porre al riparo; al sicuro quei corpi a rischio e tutto il dire che si dice alla fine promana da lì e si esaurisce lì.
Eppure bisogna stare nel vuoto, r-esistere al tentativo di aggrapparsi ai margini di quel pieno come se fosse un’argine che salva; r-esistere per vedere se c’è altro da dire! per sorprendere e farci sorprendere in un altro da vedere! In una parola resistere al presente per poter provare ancora ad essere presenti. Altrimenti, come dice Antonino, uno si scompare!
E’ vero lo siamo sempre, ma perché solo nel tempo dell’ora abbiamo la certezza di essere dei corpi a rischio e purtuttavia la retroazione rispetto a questa certezza è tentare di annullarla cercando di tornare al tempo di allora; a un tempo dietro come se il tempo dell’ora fosse un tempo rotto; un tempo guasto e in quanto tale da aggiustare nell’officina della rimozione. Non importa comprendere e/o interrogarsi sul come siamo giunti dove siamo giunti, la cosa importante è tornare lì al tempo di prima senza indugio e perplessità; senza alcun attrito; al “tempo sano” di allora sanificando ambienti, luoghi, mani, visi; sanificando la storia dell’ora denudandola da ogni e qualunque discorso che la mette al rischio di essere esposta a un’esegesi critica. Torniamo lì. Torniamo al punto dove eravamo e dove tutto si è interrotto; a quel tempo e a quel luogo, come se quel luogo, come se quel tempo fosse un riparo, un rifugio; come se quel guasto del tempo fosse una perturbazione venuta da chissà dove. Non c’è più un fuori e un dentro in cui stare; a cui tornare per cercare un riparo. Il fuori ha sfondato i recinti irrompendo nel dentro, creando un solo unico grande fuori.
E quell’interrogativo, a cui nessuno risponderà e a cui nessuno potrà rispondere, ne trascina un’altro. Ma quello che è successo ci “emancipa” definitivamente dal timore di vivere perennemente in uno stato di eccezione oppure ci siamo già emancipati; sottratti dal quel timore quasi che quel timore fosse solo uno stato emotivo e niente di più; uno spavento e non una prassi politica che precede la sua teoria e che la crea dopo retroagendo: non c’erano alternative possibili. Forse è vero! Ma proprio perché forse è vero che è necessario fare una mossa di lato torcendo lo sguardo per continuare a stare nel vuoto. E’ stando lì; è solo stando lì che forse si può scoprire che il tema non è la spiegazione del perché non ci sono alternative possibili quando non ci sono più. Il tema è sul come mai viviamo in un mondo con sempre meno alternative possibili e quello che si fa è esattamente quello che si può fare! Non c’è scelta! Il fare quello che si fa si connota in forma di razionalità assoluta cioè come verità orfana di qualunque altra possibilità e quel paradigma contamina tutto: politica; economia; sanità; guerra: “…dobbiamo potenziare il nostro arsenale bellico! Non c’è scelta! Non c’è dubbio!” Altre armi! altre vite a rischio! Ma va detto e va tenuto bene a mente che la libertà di un mondo si misura nel mondo delle sue possibilità.
Ma c’è ancora di più da dire e lo facciamo spingendo più a fondo quella domanda. Com’è che viviamo in un mondo che progressivamente riduce le proprie possibilità non solo di agirle, ma anche, a ben guardare, di pensarle privandoci così di quella “forza materiale”, come la definiva Marx nell’Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Marx attribuiva quello statuto alla teoria “nell’attimo” in cui quella si impadronisce, oggi diremmo si soggettiva, delle masse. Forse è proprio qui che dovremmo gettare una “sonda” che pone domande laddove è difficile porle e farla scendere giù al fondo delle cose per sottrarci alla spuma superficiale delle verità in contrappunto per cercare di portare su, alla luce, un campione di quello che sta succedendo laggiù e che fonda o contribuisce a fondare quello che succede quassù.
Ora, possiamo dire che ogni e qualunque agire politico, economico, educativo, lavorativo, insomma qualunque agire che ci impegna in una relazione con il sistema in cui viviamo, nel momento in cui si dà in atto, si traduce cioè in prassi, agisce e retroagisce, ad un tempo, su ciò verso cui agisce, contribuendo così a generarlo. L’operaio non è andato in fabbrica, bensì è dalla fabbrica che è uscito l’operaio! Non si tratta ovviamente di un gioco linguistico, bensì l’evidenziazione del come una prassi crea, ad un tempo, il proprio oggetto e il proprio soggetto, cioè lo costituisce “prima” per farlo diventare “poi” il soggetto verso cui si “destina” quella prassi. In una parola è la prassi che anticipa la teoria per poi retroagire creandola e con ciò si autolegittima trovando nella realtà che ha creato le sue condizioni abilitanti per fare quello che fa.
Se questo “gioco costitutivo” lo sottraiamo dall’aggancio nominalistico, politica, economia, eccetera, per farlo emergere in un’unica espressione unificante, cioè potere, non ci rimane che una prima osservazione: quello, il potere ha cambiato pelle in modo radicale e la cambia continuamente adattandosi e, soprattutto, adattando. E questo cambiamento è un cambiamento epocale in atto da decenni certo, ma che assume, mano a mano, contorni sempre più perspicui. Possiamo rappresentare questo cambiamento chiamando all’appello una dimensione dell’umano vivere che sta o che stava in un rapporto dialettico con il potere cioè la libertà e possiamo comprendere come è e come sta cambiando osservando ciò che accade non tanto al potere, quanto a quella categoria. In breve ad una, per dirla in modo improprio rispetto al suo significato originario, “dialettica negativa”, che pone potere e la libertà come due dimensioni, benché in relazione/reazione, in antitesi nel loro darsi, ma “autonome” nel loro costituirsi, si apre la via ad una “dialettica positiva”, cioè creativa, dove è il potere stesso a costituire inuna sorta di atelier sociale, una propria e adeguata a sé libertà nostra. Chissà forse è più corretto dire che stiamo assistendo al superamento della dialettica tout court e ciò nella misura in cui la libertà, la sua costituzione, è sussunta genealogicamente dal potere.
Il potere nelle sue molteplici forme ha invaso il campo della libertà, privandola della propria autonomia costitutiva per costituirla in forma adeguata al suo esercizio. La libertà è così trasformata da luogo di costituzione autonoma di pensiero e di prassi di mondo, capace cioè di porre continuamente a critica le premesse sui cui il mondo si fonda e quindi fondando un mondo continuamente ricco di possibile, ad un luogo funzionale al potere che la costituisce in forma adeguata. Il potere assume così la forma di potere assoluto senza un Re e ciò nella misura in cui crea il proprio soggetto verso cui poi destina le sue pratiche in modo ricorsivo.
E se questa conclusione ha un qualche fondamento di verità, non può non porsi ancora che una domanda: ma qual è o quali sono le condizioni di possibilità affinché quel che si dà si dia?Le traiettorie di indagine di una possibile o di possibili risposte sono tante evidentemente, ma “tiriamo” su la “sonda” e proviamo ad analizzare un campione di quello che succede laggiù e che spinge e sostiene quello che succede quassù e che ci consente di provare ad abbozzare una possibile risposta. Per far si che quel che si dà si dia c’è bisogno di un “uomo nuovo” adeguato che vesta, come habitus percepito, vissuto, agito come proprio, quella nozione di libertà costituita dal potere nelle sue varie forme. Questa è una, e forse la più importante, condizione di possibilità per far si che quel che si dà si dia. Ma se è così quali sono le connotazioni di questo “uomo nuovo”?
Oggi la politica, l’economia, ecc. hanno ed esibiscono nella prassi una certa idea di uomo. Ma qual è questa idea di uomo? Per rispondere a questa domanda cerchiamo soccorso in Margaret Thatcher. Si proprio lei!! Fu infatti lei ad attribuire all’economia il luogo e la funzione di produrre non tanto delle merci, quanto di creare “anime”. Va da sé che trattasi di una creazione del tutto particolare e cioè quella di anime adeguate evidentemente!Tradotto significa che l’agire economico e politico, si indirizza in una certa direzione che è quella della privazione; della sottrazione e dello scarto; del ritaglio; della messa a margine e, quasi fosse la prolegomeni di una dottrina scientifica, del “bando” dell’uomo. Bando dell’uomo in quanto umanità cioè in quanto soggettività che desidera; aspira; sogna e continuamente cerca la propria “umanità” come piena realizzazione di sé nella sua moltitudine di possibili. Forse è proprio questo che i due dell’ideologia tedesca intendevano quando scrivevano di un uomo che “ al mattino va a caccia; il pomeriggio a pescare, la sera alleva bestiame, dopo pranzo critica, così come mi vien voglia ; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico”. Ma il mondo ha preso una direzione diversa! In altre parole è in atto non da oggi e neanche da ieri, ma da decenni ormai, un processo costante che si agita nel “sottosuolo” del mondo. Un processo di de-soggettivazione che pone al bando l’uomo come uomo abile all’utopia per farlo emergere come pura e semplice biologia e che in quanto tale vive senza una vita vera. Certo senza vita biologica non può esserci neanche l’uomo abile. È vero, ma non è altrettanto vero il contrario e cioè che se c’è vita biologica c’è anche vera vita. Una vita buona! Un vita mai data per sempre e sempre e continuamente dantesi nei suoi molti possibili. Ciò che sta avanzando, mi pare, è che l’una, cioè la vita biologica tende a sottrarsi; a fare a meno della vita vera. La vita vera è un residuo; uno scarto, o un in più non necessario, della vita biologica. C’è di più di ciò che è necessario direbbe Nietzsche! Storpi al contrario!
L’epidemia ha “mosso” la politica riducendola a “politica sanitaria” cioè a biopolitica, rendendoci adeguati a questo sistema di vita ad un prezzo, alto, basso, non saprei dire, comunque ad un prezzo da pagare: un po’ malati e un po’ sani, un po’ liberi e un po’ no, per poter essere adeguati ad un sistema indiscutibile. Questo nella politica sanitaria! In quella economica l’idea di uomo che emerge è quella di un uomo la cui soggettività come l’abbiamo intesa prima, è sacrificabile e, per certi versi e in certi luoghi, la stessa vita oggettiva del corpo biologico è altrettanto sacrificabile.
Non dissimilmente lo è la politica in genere che tende sempre ad essere una pratica amministrativa, priva e privante di una qualunque utopia, e cioè di una politica che riduce il proprio ruolo ad amministrare e/o correggere, per essere benevoli, gli effetti negativi di prassi economiche o a garantirne le condizioni di funzionamento anche a costo di generare dei corpi a rischio malati di epidemie e di guerre. Questo mi pare quella sonda gettata giù nello sprofondo del nostro modo di essere nel mondo porta a galla.
Ma dov’è, se c’è un luogo, un centro, una prassi in cui la de-soggettivazione si mette in atto in modo preciso? Sicuramente non c’è un luogo; un “edificio”, con un indirizzo ed un numero civico, dove si fabbrica quest’uomo nuovo. Più che un luogo dovremmo cercare la moltitudine delle pratiche che contribuiscono, ognuna per il proprio pezzetto, a creare quest’uomo nuovo. Ma dove cerchiamo queste pratiche? Probabilmente dovremmo cercare la genealogia di quest’uomo nuovo nelle banche dati; nelle profilazioni commerciali di ognuno di noi. Ma non solo! Questa ricerca non può escludere luoghi. Nulla escluso e nessuno può escludersi! Probabilmente cambia solo l’intensità! Probabilmente dovremmo cercarle anche in quei luoghi meno probabili perché troppo vicini per essere visti da quella distanza necessaria allo sguardo per poter vedere in modo perspicuo ciò che guardiamo. Forse dovremmo cercarle nei nostri luoghi di lavoro dove trascorriamo la maggior parte del tempo della nostra vita, chiedendoci che ne è della nostra vitalità? Come si manifesta se si manifesta? Forse dovremmo cercarla nei luoghi “educativi” chiedendoci: ma qual è l’uomo che contribuiamo a creare? Ne abbiamo una qualche idea? Applichiamo, indifferenti, protocolli? Forse dovremmo cercarla nella struttura delle nostre relazioni l’un con l’altro che, secondo alcuni che studiano questi fenomeni (Bazzicalupo), assumono sempre più la caratterizzazione di relazione di “tipo economico” a competizione negativa; sempre meno dono e sempre più concorrenza. Forse dovremmo cercarla negli stessi luoghi in cui si manifesta la nostra partecipazione sociale e politica; forse dovremmo cercarla nel nostro modo di esser-ci di cittadini; nel nostro modo di accettare le definizioni che ci diamo/danno/diamo di che cosa è una vita degna di vita! Forse dovremmo cercarlo proprio lì, in quella moltitudine di “luoghi”, perché è lì che le “anime” si creano adeguate.
Forse è proprio ripartendo da una critica da qui che si possono porre le basi per un processo di ri-soggettivazione, di coalescenza e succussione sociale, per provare a rendere quella percezione “che qualcosa non va” in una “forza materiale” capace di ad immaginare e agire un mondo diverso e con esso un uomo da costituire continuamente senza darlo mai per completo e cioè come uomo “luogo” di infinite possibilità abile a scoprire e realizzare la propria umanità e la propria felicità in un mondo che consente.
Ma intorno a cosa si può costituire quel processo di ri-soggettivazione? Penso che, forse in modo poco marxiano, ma poco male, la ri-soggettivazione non passi più o non passi più esclusivamente per i luoghi, ma anche per i fuori – luoghi, della produzione cioè in quel mondo vitale che si chiama qualità della vita. Lì dentro può emergere una critica contro pelo alla vita in un sistema bio-politico; lì dentroprobabilmente “cova” quella verità intono a cui costituire quella forza materiale; una soggettività in grado di immaginare un mondo di infinite possibilità.
Un processo e un’attività costituente, evidentemente, e in quanto tale non rappresentabile se non da se stessa perché la partecipazione è costitutiva del suo essere e il suo essere è l’esser-ci. Niente può costituire l’essere se non l’essere stesso in un costante processo di autopoiesi sociale. Pena la propria morte. E’ sicuramente difficile trovare un linguaggio ed una prassi adeguata per iniziare un processo di questa portata, ma forse il fatto di porsi e porre la questione è già un cominciamento e in questo cominciare bisogna avere un’indomito coraggio e cercare, fra le altre, di appropriarsi anche di linguaggi che non ci sono comuni, ma che possono essere fecondi di quella fecondità che la politica trasformata e trasformantesi sempre più in tecnica e in pratica amministrativa è sempre più arida. Guardare altrove e guardare con tutti gli occhi possibili e guardare anche in luoghi culturalmente improbabili per trovare formule di resistenza al presente e trovare in quei luoghi il coraggio di un uomo, San Francesco d’Assisi, che ” nella povertà della moltitudine scoprì, in opposizione al capitalismo nascente, la potenza ontologica di una nuova società, Francesco rifiutava qualsiasi disciplina strumentale, e alla mortificazione della carne ( nella povertà e nell’ordine costituito) contrapponeva una vita gioiosa che comprendeva tutte le creature e tutta la natura: gli animali, sorella luna, fratello sole, gli uccelli dei campi, gli uomini sfruttati e i poveri, tutti insieme contro la volontà di potere e la corruzione. Nella postmodernità ci troviamo ancora nella situazione di Francesco, a contrapporre la gioia alla miseria del potere! ( A. Negri, M. Hardt, Impero).
Nell’immagine: Murale di Blu a Campobasso