Hotel Nord America di Giacomo Mameli
1 Agosto 2020[Bastiana Madau]
L’ultimo libro di Giacomo Mameli – il suo quindicesimo – si può inscrivere in un progetto di scrittura via via configuratesi come una miniera di racconti emblematici della trasformazione sociale dal dopoguerra a oggi.
Mameli ha raccontato la Sardegna attraverso le storie di vita, cioè attraverso un metodo della ricerca sociale che sta alla base di ogni suo libro, anche di quelli che poi si andranno affinando nell’affabulazione sino a lambire la forma romanzesca. Nei suoi libri emerge costantemente l’idea che nell’isola ci siano i segni di un mutamento che non ha mai smesso di compiersi, e ciò non è affatto scontato in una realtà letteraria dove ancora tanto si insiste sulla fissità mitografica. Mameli ha sempre dedicato un’attenzione fuori dal comune all’universo femminile, ma anche qui non nel senso delle dee madri, delle janas, delle matriarche, delle acabadoras, bensì nel mondo del lavoro, dell’emancipazione reale, dell’esistenza concreta delle donne. Ciò accade anche con il libro recentemente edito da Il Maestrale, Hotel Nord America, la cui lettura mette subito in contatto con la materialità semplice del vivere. Nei venti capitoli denominati “episodi” e diversamente intitolati si snodano innumerevoli storie, e tutte fantastiche: non nel senso della fantasia, ché, come scrive l’autore nella brevissima premessa al racconto, “di fantasia ce n’è davvero poca, e se ce n’è è figlia di realtà vissuta”, ma nel senso della loro straordinaria ricchezza sotto il profilo umano, etico, antropologico, emotivo.
Siamo nel 1939. Il giorno dopo il diploma conseguito all’Università di Bologna, 22 giovanissime ostetriche appena diplomate nell’Università di Bologna vengono inviate in Sardegna, “in una delle provincie più povere d’Italia”, dice il Prefetto che le accoglie a Nuoro (con pernottamento nell’Hotel Nord America), “per combattere la alta e perigliosa mortalità infantile”. Il decentramento in certe regioni italiane di contingenti di ostetriche faceva parte a pieno titolo delle politiche familiari del regime. Il Duce voleva famiglie numerose, maschi da mandare in guerra, a conquistare il mondo. Nei paesi dove le ragazze vengono assegnate, le condizioni sanitarie sono disastrose: in tanti villaggi non c’è l’acqua corrente, ancor meno le fognature, nella maggior parte delle case non ci sono servizi igienici. Molte malattie sono legate anche alla denutrizione e alla convivenza dei cittadini, nella stessa abitazione, con gli animali. Le giovani ostetriche si ritroveranno di fronte a un importantissimo lavoro di educazione all’igiene da svolgere, ché di parto morivano anche le donne. Del gruppo di ostetriche fa parte Ida Naldini, su cui si incentra la storia, che nel contempo è anche la voce narrante. Ida è di origini toscane e campane, e come altre sue compagne si ritrova su un traghetto per l’isola sconosciuta senza nemmeno poter avvisare i familiari. Le giovani ostetriche da Nuoro vengono indirizzate nei paesi: Angelini Anna a Urzulei, Barberini Dina a Bitti, Giulia Dozza a Siniscola, Elda Mambelli a Gairo, Zaira a Silanus, ecc. Naldini Ida Modestina Raffaella viene spedita a Perdasdefogu, dove presto conosce e s’innamora del simpatico e audace Orazio. I due si sposano e Ida diventa mamma anche lei, di fatto accettando di buon grado di vivere per sempre in una comunità poverissima dove il regime fascista manda al confino donne dissidenti e zingare. A questo proposito, sono belle e significative le pagine dove Ida racconta l’accoglienza che la povera gente di Perdasdefogu riusciva comunque a garantire alle persone che arrivavano in paese confinate dal governo fascista. Accade così che l’ospitalità spontanea dei foghesini boicotti il progetto fascista di fare del villaggio una terra d’esilio.
Con l’arrivo dell’ostetrica la diminuzione della mortalità neonatale diventa tangibile: “Alla fine di dicembre 1939 erano nati 55 bambini, 31 maschietti, 24 femminucce […] Da agosto nessuna bara bianca tra i cipressi del camposanto di Tuppa Segàda. Cinquantadue nati nel 1940, tre in più nel 1941, e poi ogni anno tra cinquanta e sessanta bambini. Prima ne morivano tra otto e dieci all’anno, ne erano morti 16 su 42 nel 1934. Nei miei primi dieci anni, fino al 1949, due funerali all’anno per neonato. Nel 1950 ogni culla ha visto crescere i suoi bambini e le sue bambine. Erano aumentati i viaggi alle fontane. Nel 1956 cominciano i lavori per avere l’acqua corrente nelle case del paese. Per le strade non vedevi più rigagnoli d’acqua non cristallina”. Col dopoguerra Foghesu comincia a cambiar volto, ragazzi e ragazze possono studiare, con grandissimi sacrifici di genitori contadini, che spaccandosi la schiena riescono a far laureare i figli in medicina o in teologia. Ida ormai parla in sardo. È testimone e protagonista della ricostruzione post bellica, poi di vicende da Guerra Fredda, con Foghesu diventata sede di un Poligono militare sorto per scopi scientifici – si leggeva nei documenti ufficiali –, puntando in particolare a ricerche meteorologiche e spaziali. E qui il racconto di Mameli si fa oltremodo interessante e la si legge non senza sofferenza la nascita del Poligono Interforze, gli espropri dei terreni ricadenti nei vari comuni tra l’Ogliastra e il Sarrabus, l’arrivo a frotte di “quelli con le stellette” – come li chiama Ida –, la trasformazione del povero, antico villaggio in un grande cantiere edile, i soldi che iniziano a circolare. Ora Ida assiste anche al parto delle mogli dei militari continentali e alla fine della sua carriera avrà aiutato a mettere al mondo la bellezza di 1.846 bambini.