I natali dell’olivastro
1 Gennaio 2014Alfonso Stiglitz
A Luras c’è uno splendido olivastro che ha già vissuto migliaia di natali osservando quello che lo circonda, come ha sempre fatto vedendoci passare leggeri su questa terra, ancora rispettosi della sua dignità.
3500 anni fa il nostro olivastro avrebbe sentito il rumore dei picconi, dei martelli, degli scalpelli che estraevano e sagomavano le pietre per costruire i nuraghi; un fervore di lavori che si estendeva per tutte le campagne, con fili di fumo che si alzavano un po’ ovunque e alberi che venivano abbattuti per far spazio alle torri o per le impalcature. Ma lui riuscì a nascere e a svilupparsi indenne. Forse i suoi frutti erano utili alla sua comunità.
3300 anni fa, ormai giovane adulto, poteva vedere da lontano le coste dove uno svolazzare di vele tradiva l’arrivo di genti dall’oriente, che portavano i propri beni e la partenza di navi dei suoi cari che veleggiavano, a loro volta, verso il lontano sorgere del sole alla ricerca di qualcosa di prezioso.
3000 anni fa, mentre festeggiava il suo mezzo millennio di vita, vide i suoi nuraghi trasformarsi, alcuni abbandonati del tutto. Ma vedeva ancora fiorire lavori, con costruzioni più raffinate, muri perfettamente realizzati con pietre tutte uguali e, soprattutto pozzi dotati di scalinate e ricchi di offerte in bronzo.
2800 anni fa, sonnecchiante, vide arrivare, e stabilirsi tra i suoi cari, gente venuta dall’oriente, che vestivano strane vesti di porpora e che ben si adattarono a vivere nei villaggi sparsi lungo le coste. Li guidava Sardo, figlio del dio di Tiro, Melqart.
2500 anni fa, festeggiò il suo millennio di vita, sentendo i rumori, le chiacchere, le urla, le risate e gli odori, e quali odori, delle città ormai ben sviluppate, ricche di traffici con il grande mare Mediterraneo e oltre: Olbia, Tharros, Sulky, Nora, Karaly e le altre.
2300 anni fa, sentì il tremore sulle radici e il rimbombo sulle sue fronde, causati dal passo delle legioni romane, che volevano stabilire l’ordine coloniale, per trasformare la Sardegna in una provincia della lontana Roma, granaio per sfamare la sua estesa popolazione. E sentì le urla, la disperazione dei parenti dei morti o dei deportati in esilio.
2000 anni fa, poteva vedere le città nel loro massimo splendore, ricche di palazzi, di templi, poteva vedere sfrecciare i carri e i cavalli nelle strade pavimentate che rendevano la Sardegna un unico paese. E i grandi porti le cui navi in pochi giorni raggiungevano l’Africa o l’Italia.
1800 anni fa, sentì i primi predicatori diffondere un verbo proveniente nuovamente dall’oriente, dapprima nelle miniere dove vennero deportati coloro che guidavano quelle comunità, che chiamavano cristiane. Ma poi, poco a poco, il cambiamento gli fece vedere nuove costruzioni, nelle quali queste comunità si riunivano.
1300 anni fa, vide i porti abbandonati, le città rimpicciolirsi, la gente abbandonare le fattorie sparse e raggrupparsi in piccoli paesi, magari vicino a una chiesa. Più sicuri nella vita e capaci di produrre nei campi vicini tutto quello che gli serviva per cibarsi e per il bestiame.
1000 anni fa, vide un nuovo fervore di vita, sorgere nuove chiese, rinascere le città, governate ora da re che si facevano chiamare giudici. Vide con sorpresa che questi riunivano le loro corti sotto i grandi alberi e, magari, un giorno sarebbe avvenuto anche sotto le sue fronde, lui che era ormai un patriarca capace di accogliere tutti.
600 anni fa vide una donna della propria terra ergersi a difensore del proprio popolo, dotarlo di una legge, ma anche portarlo con sé per firmare una pace che dovette subire, sottoscritta da tutti, uguali tra uguali.
250 anni fa vide un lungo corteo di uomini a cavallo guidati da un giudice che da Cagliari si recò a Sassari per portare una pacificazione nell’isola. Ma vide anche il suo corteo rendersi conto dello stato di prostrazione della popolazione e diventare, pian piano, un corteo di rivendicazione e di ricerca della libertà.
100 anni fa vide una grande quantità di giovani della sua terra finire massacrati per un confine patrio che non conoscevano, messi insieme in una brigata che, per volere razzista, era composta di soli sardi feroci, audaci, primitivi e perciò sacrificabili e molti furono sacrificati.
70 anni fa vide un giovane figlio della sua terra scrivere il manifesto della razza che dichiarava gli uomini diversi, ma vide anche molti suoi fratelli finire nei campi di concentramento, lottare contro il razzismo o morire nei campi di battaglia per liberarci da questa schiavitù.
Oggi vede con afflizione la sua terra impoverirsi, perdere la voglia di proseguire. Con perplessità assiste all’incapacità dei suoi cari di stare assieme e inizia ad avere paura che qualcuno lo bruci, come è avvenuto per tanti, troppi suoi compagni.
Domani, pensa, qualche altro piccolo olivastro spuntato entusiasta dalla terra potrà accompagnarlo in una nuova storia che possa durare quanto quella sua e anche oltre, con tanti natali di rinascita e non di abbandono.
P.S. Questo testo nasce da una proposta dell’artista Antonino Pirellas che ha elaborato una installazione prendendo lo spunto dall’Olivastro di Luras. Antonino mi ha chiesto di immaginare cosa l’olivastro avrebbe visto nella sua lunga vita. Ho pensato di farlo nascere nel 1500 a.C. e regalargli questo testo come augurio di buone feste: a mill’annus.