I negazionisti dell’identità
16 Dicembre 2021Volti senza identità. Gideon Rubin Pink 2019. (Galleria Monica de Cardenas)
[Francesco Casula]
Pervicacemente, molti studiosi perseverano nel negare l’identità sarda. O comunque pensano che debba essere “superata”. Tali “negazioniasti” sono per lo più allocati nelle Università: penso a un accademico cagliaritano che in un recente saggio ha scritto proprio che “il riconoscimento delle differenze deve preludere al loro superamento”.
In genere coloro che negano l’identità ricorrono a un trucco maldestro: fanno dell’identità una caricatura, per poterla così più facilmente confutare. Ovvero la dipingono come immobile, ferma e ossificata nel passato; riducendola di fatto a una semplice spolveratina di tradizioni seadas e limba, (anzi:dialetti) o a folclorismo macchiettistico becero e banale. L’Identità invece di cui ragionerò, individuale e collettiva, sulla base degli studi più avvertiti, non è una realtà astratta, metastorica, statica, bensì concreta e dinamica: non naviga cioè nei cieli della metafisica ma cammina nella materialità corposa delle vicende e dei processi reali in cui si contamina, si trasforma e si costruisce-ricostruisce.
A mio parere infatti occorre leggere e interpretare l’Identità non con le lenti logore di un’ideologia passatista, ma con un restyling concettuale nuovo e complesso che rifiuta e oltrepassa una improbabile visione museale. Ovvero un’impostazione che riproponga un cliché che la riduce a semplice recupero acritico del passato e delle sue tradizioni o del suo folclore; o a un attributo eterno e immutabile. Provocatoriamente sosterrei anzi che la visione puramente etnografica dell’identità, certifica la morte dell’identità stessa.
E a proposito di “tradizioni” ricordo quanto scritto da Cesare Pavese nella prefazione a Moby Dich, romanzo dello scrittore e poeta statunitense Herman Melville, da lui tradotto in Italiano:Avere una tradizione è men che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla.
E con un aforisma affilato e fulminante, il compositore austriaco Gustav Mahler in qualche modo integra Pavese stesso, scrivendo che “La tradizione deve essere considerata come rigenerazione del fuoco e non come venerazione delle ceneri”.
L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione e dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro. Un futuro di prosperità e libertà, autogoverno e autodeterminazione.
I veri e importanti elementi di identità – ha scritto Salvatore Mannuzzu – che la tradizione ci consegna si perdono se non vengono investiti nell’oggi e nel diverso da noi: in qualcosa che con un termine ambiguo si chiama «il moderno». Anche se è vero che il moderno non ha portato il paradiso in Sardegna, tra industrializzazioni e programmazioni fallite, (insieme alla cosiddetta Autonomia); riforme agrarie nemmeno partite o comunque abortite, globalizzazioni solo patite, spaventose culture dei consumi, devastazioni ambientali, scolarità degradate, neocolonialismo galoppante: culturale e linguistico prima ancora che economico. Però hic rhodus, hic salta: questi sono i problemi che è necessario affrontare, non solo in Sardegna, anche se sulla Sardegna hanno un impatto specifico.
Ma per affrontarli sono inadeguate le logiche de su connottu. E’ infatti giusto vederlo e considerarlo come uno spazio reale e simbolico di garanzia, ricco di valori costituiti dal patrimonio storico, archeologico, artistico, linguistico e culturale; ma non possiamo intenderlo come un semplice aschisòrgiu (tesoro) da custodire, senza investimento.
L’identità va resa vera e reinventata giorno per giorno, come la vita: sa vida est naschimentu. E il popolo sardo è tutt’altro che compatto: si tratta di rimetterlo faticosamente insieme, con una ricerca collettiva di senso, che batta ogni paese e ogni campagna. Andando anche ben al di là dei confini dell’isola.
E all’accademico cagliaritano ricorderei solo che, per chi non ha identità, per chi non è se stesso, in sardo nuorese si dice: est unu santu nemos e in sardo meridionale: est comenti a nixunu.