Il brutto della Sardegna
16 Febbraio 2010Costantino Cossu
«Paesaggi perduti» è il titolo di un libro curato da Sandro Roggio che raccoglie 13 contributi sugli scempi compiuti in questi anni. E il peggio è in agguato, con l’applicazione del «piano casa» voluto dal nuovo presidente della Regione Ugo Cappellacci: si cancella con palate di cemento lo sforzo dell’amministrazione precedente guidata da Soru per porre fine alla distruzione delle coste. Spiagge d’un bianco accecante, mare di cristallo, campi e colline non violati dal cemento, montagne dove l’unica presenza che s’avverte per decine di chilometri è quella del vento che soffia tra le querce, i resti unici lasciati in ogni angolo dal popolo dei nuraghi passato sulla terra leggero. E’ la Sardegna bella, quella che ancora c’è, ma sempre più stretta dal proliferare di un suo doppio deforme, mostruoso, la Sardegna brutta raccontata in «Paesaggi perduti», il libro curato da Sandro Roggio appena pubblicato dall’editore cagliaritano Cuec (140 pagine 13 euro). Il volume è un campionario degli scempi compiuti negli ultimi decenni e, insieme, un allarme lanciato perché si eviti il peggio che potrebbe arrivare con il cosiddetto «piano casa» approvato dalla giunta regionale di centro destra presieduta da Ugo Cappellacci, il governatore succeduto a Renato Soru dopo le elezioni del febbraio dello scorso anno. Sono tredici i contributi raccolti nel libro e non è possibile qui citarli tutti. Si va dalla dissennata gestione del patrimonio archeologico descritta dall’archeologo Marcello Madau, all’ironico dialogo tra il regista Antonello Grimaldi e l’attore Sante Maurizi sulla «filosofia del villaggio turistico» che, a partire dagli anni Settanta, ha fondato un modello di sviluppo turistico devastante per coste e paesaggio. Oppure, dalla sconsolata constatazione del degrado del tessuto urbanistico e di quello sociale di Sassari nelle pagine dello scrittore Salvatore Mannuzzu, al racconto che lo storico Luciano Marrocu fa dello scempio delle tracce del passato cui è stato sottoposto il centro storico di Cagliari. Il giornalista Giancarlo Ghirra spiega come nell’alluvione che ha devastato Capoterra, presentata come una catastrofe naturale, di naturale non ci sia stato proprio un accidente, perché le cause del disastro stanno tutte nel modo criminale in cui per decenni lì il territorio è stato violentato nel nome dell’espansione edilizia. Un altro cronista, Giacomo Mameli, racconta come a Perdasdefogu, il paese al centro del poligono di Quirra dove vengono testati i droni che l’aviazione americana usa in Afghanistan e in Pakistan, una basilica del Cinquecento sia stata rasa al suolo per farci sopra un campo di calcio. Uno scrittore, Marcello Fois, avverte che le devastazioni non sono solo materiali: «Non è sempre necessario demolire per cancellare la propria storia urbana, qualche volta si distrugge anche costruendo una parastoria», ovvero una falsa identità in cui il peggio del vecchio (i codici della tradizione della Barbagia) si fondono in un ibrido orrendo con il peggio del nuovo (i codici del consumo come unica fonte di strutturazione del sé, individuale e collettivo). E siccome Cappellacci la sua campagna elettorale l’ha vinta anche promettendo che avrebbe smantellato il Piano paesaggistico voluto da Soru (come infatti puntualmente sta avvenendo), l’analisi di Marcello Fois dovrebbe far riflettere su quanto il sopravanzare della Sardegna brutta sulla Sardegna bella sia il frutto di processi profondi, in cui modelli di sviluppo economico e sistemi di relazioni sociali si sono modificati di pari passo con un progressivo slittamento di senso dei valori della tradizione verso un individualismo proprietario non dissimile da quello che si afferma a Bergamo o a Treviso. Un campo di contraddizioni aperto, però, dove le possibilità di giocare una partita diversa non sono ancora tutte chiuse. Un orizzonte di conflitto in cui il libro curato da Sandro Roggio s’inserisce come un prezioso contributo di conoscenza.
18 Febbraio 2010 alle 16:02
Tra i paesaggi perduti inserisco anche i semi perduti, ossia la biodiversità, quella naturale diciamo ma anche quella coltivata, ossia conservata e coltivata nei frutteti, negli orti, nei campi, nelle vigne… dai mandorli ai vitigni locali, dalle varietà di fagiolo a quelle di grano, che stanno scomparendo anno dopo anno, anche se esistono agricoltori custodi…sempre piu’ anziani e stanchi.
Un patrimonio colturale e culturale che e’ spesso negletto, almeno a mio modesto modo di vedere.
Un bel frutteto, una vigna curata, un campo di grano sarebbero invece la fortuna del nostro paesaggio e non solo.
Per non parlare dell’esotizzazione dei giardini sardi (specie quelli degli alberghi e dei villaggi turistici, ma anche delle aiuole dei comuni da nord a sud, da est a ovest), in cui si estirpa la biodiversita’ spontanea, erbe e arbusti mediterranei di grande valenza naturalistica, legati anche all’alimentazione e alla medicina popolare, per piantare esotici e stereotipanti bouganvilles, banani e simili.
Il finocchietto selvatico, i cardi, le biete, ecc. sopravvivono negli interstizi tra un palazzo e l’altro, o in aperta campagna, dove ci si reca sempre meno, rifugiandosi negli accoglienti centri commerciali per strutturarsi, appunto, attraverso il consumo di prodotti, di beni e servizi, e il consumo di identita’ locale, ormai diventata una commodity, in alcuni casi palesi e noti.
Acquistero’ senz’altro il volume, grazie per la segnalazione, vi leggo sempre volentieri.