Il carcere di cui non si parla
1 Maggio 2013Graziano Pintori
Quella che segue è la prima parte della sintesi del libro di M.Rita Prette presentato recentemente a Nuoro da R. Curcio e dall’avvocato A. Merlini, il titolo è : 41 BIS – Il carcere di cui non si parla – ( Ed. Sensibili alle Foglie 2012 ). Nella premessa si legge : ” …percorriamo la storia recente del carcere e dei suoi dispositivi punitivi, seguendo la traccia delle emergenze che di volta in volta ne hanno determinato –o pretestuosamente consentito – l’evoluzione.
Il carcere, dopo la seconda guerra mondiale, dopo la Resistenza e l’industrializzazione, è continuato a essere una istituzione chiusa, totale. Una istituzione resistente e impermeabile a qualsiasi sollecitazione di cambiamento: il codice fascista di Alfredo Rocco resta inscalfibile. Nel carcere del codice Rocco erano vigenti gli stessi dispositivi disciplinari in uso negli OPG: la camicia di forza, il letto di contenzione, le celle imbottite e le infrazioni, puntualmente punite, ne allontanavano la scarcerazione. Negli anni ‘60 e ‘70 i detenuti politici iniziarono a popolare le carceri, manifestarono da subito l’indisponibilità a subire passivamente qualsiasi abuso; all’interno si costituirono i comitati di lotta, spazi di confronto e riflessione politica. In quel periodo si diedero vita alle rivolte, alle denunce contro l’inumanità delle carceri e degli OPG, su tutto quel fronte c’era il sostegno delle organizzazioni esterne, fra le quali quelle extra legali e armate come i NAP. In piena emergenza terrorismo, nel luglio 1975, fu emanata la legge 354 sulla riforma carceraria: da un lato tendeva alla modernizzazione del carcere con l’articolazione dei diritti e doveri dei reclusi, dall’altra con l’art. 90 (l’antenato dell’art. 41 bis) adeguò le regole alla differenziazione del trattamento; non a caso, dopo qualche anno, un decreto interministeriale (il n. 450 /Maggio 1977) istituì le carceri speciali. Nel 1978 furono stanziati 400 miliardi di lire per costruire nuove carceri, altre furono rese conformi all’emergenza penale; a quel periodo risale il trasferimento di un migliaio di detenuti nelle carceri speciali (Asinara, Cuneo Fossombrone, Novara, Nuoro). La funzione del circuito speciale consiste nell’isolamento esterno e interno del detenuto: quello esterno consiste nella difficoltà per raggiungere l’istituto di pena, un modo per favorire una selezione naturale del numero dei colloqui, un’ora per quattro volte al mese, da tenere nei cosiddetti “acquari”, ossia sale con vetrate alte fino al soffitto per separare i detenuti dai visitatori e costringerli a comunicare con i citofoni. Ai detenuti “speciali”sono sospesi la ricezione di libri, pacchi, telefonate e anche i colloqui con gli avvocati. All’interno l’isolamento consiste in un’ora d’aria al giorno, non più di sei detenuti per volta, dentro “scatole” di cemento, chiuse in alto da grate, i luoghi di socialità sono negati. Inoltre, per ogni minima infrazione, se tale è ritenuta, vengono “pestati”, sottoposti a frequenti denudazioni per le perquisizioni corporali e ispezioni anali, sono insultati, picchiati e privati del cibo e, se non distrutti, privati anche degli oggetti personali. A “trattamenti speciali” corrispondono “detenuti speciali”, identificati in coloro che danno fastidio nel circuito normale, che fanno politica e lottano, sono i detenuti che tentano le evasioni. L’art. 27 della Costituzione recita:”Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tutto il contrario della realtà carceraria dove si tende all’annichilimento della persona perché privata, oppure ridotta, della possibilità di lavarsi, mangiare, sentire un notiziario, indossare propri vestiti, scrivere, ricevere posta, leggere. Di tutti questi diritti negati non si capisce il nesso con le misure di sicurezza adottate, tanto meno si capiscono le botte e le manganellate che si subiscono senza ragionevoli motivi. Nel Maggio 1982 arriva la legge 304 per i “pentiti”, ossia la non punibilità per chi rivela e determina lo scioglimento della banda armata o la struttura della stessa. Per questa tipologia di reclusi non è previsto l’ergastolo, ma notevoli riduzioni di pena che non superano i dieci/quindici anni, oppure la scarcerazione. Nel 1982 i pentiti sono circa trecento e gli arrestati per banda armata sono più del triplo: 965.
Il 10 Ottobre 1986 arriva la legge 663, la cosiddetta legge Gozzini che inserisce l’art. 41 bis: situazioni eccezionali, che recita “…vengono sospese le normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata da necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto” Lo Stato vorrebbe abbandonare la stagione delle carceri speciali e delle torture, cambia metodo. Favorisce la divisione dei carcerati in buoni e cattivi e infonde la cultura della scelta del “male minore” per beneficiare delle riduzioni di pena. Il “male minore” consiste in una dichiarazione, da parte del detenuto, con la quale esprime la volontà di volersi dissociare dalle organizzazioni di appartenenza, di ammettere i reati effettivamente commessi, di ripudiare l’attività associativa e la violenza come metodo di lotta politica. La legge 34 del 18 febbraio 1987 mette in evidenza la strategia dello Stato, il quale, per svuotare le carceri speciali dai detenuti politici degli anni ’70, favorisce percorsi per portarli fuori dalle galere, infatti anche l’ergastolo diventa una pena trentennale. Si vuole, in pratica, favorire un ricambio della qualità dei carcerati; mutatis mutandi la pena non è più commisurata al reato, ma diventa merce scambiabile sul mercato della giustizia, quale che sia il reato commesso. E’ un periodo in cui si favorisce la stagione del “carcere della speranza”, non si confonde il crimine con il criminale. ( fine 1^ parte)