Tuvixeddu o la memoria della città dissolta
1 Marzo 2008
Paolo Bernardini
Il colle di Tuvixeddu chiude, oggi come ieri, il paesaggio d’acqua della laguna; per chi entri a Cagliari è impossibile, oggi come ieri, non vederne la mole squarciata dalle ferite e dagli abusi, dall’assedio arrogante della città moderna che ancora non la spunta ma che sempre ci riprova.
Sulle rive della laguna, in quella ragnatela di acqua e terra che si snoda tra Santa Gilla e l’isola di San Simone, nasce la Karali fenicia, un insediamento in origine modesto, raccolto sul mare ma ben consapevole delle grandi potenzialità che l’attendono immediatamente oltre l’abbraccio del golfo, nelle piane fertili che diventeranno, nel mito, il dominio di Iolao e delle sue genti.
E’ una storia che inizia otto secoli prima di Cristo, almeno a giudicare dagli scarni indizi recuperati in via Brenta e che condurrà, con il divenire dell’egemonia politica e culturale di Cartagine nel Mediterraneo, al centro urbano punico di Karali, sede del potere dell’aristocrazia della metropoli nord-africana nei territori meridionali dell’isola di Sardò.
Karali punica, nel V e nel IV secolo a.C., è un centro in piena fioritura, che riprende nel decoro urbano e nell’artigianato i modelli culturali nord-africani della capitale ed è immerso nella vivacità e nel benessere del commercio internazionale, scandito dalle rotte e dal movimento di merci che viaggiano da Atene a Cadice.
Ma chi voglia ripercorrerne la storia, cercando nella città moderna le sue tracce o quelle, ancora precedenti, della Karali fenicia, si renderà subito conto che ciò che resta è sempre e soltanto la notizia di uno scavo pubblicato in un libro, la fotografia di un rudere che ora è sotto una casa, una planimetria di strutture sepolte sotto un supermarket.
Cagliari è cresciuta senza rispetto per la memoria, ha cucinato e ingoiato le sue radici, come Crono divorava i suoi figli e, a differenza del dio del mito, non ha mai risputato nulla, ha digerito – e dimenticato – tutto.
La sorte di Cagliari romana e medioevale non è molto diversa: che si tratti del celebre tempio ellenistico di via Malta o delle imponenti domus di viale Trieste o di Santa Igia giudicale.
Il colle di Tuvixeddu, con la sua necropoli, resta il campanile, smozzicato ma ancora in piedi, di una città dissolta; esso, ancora, con lo scrigno delle sue memorie, riesce ad evocarla e a definirla, in primo luogo nei suoi spazi originari: l’altura, con quella vicina di Tuvumannu, interessata anch’essa dalla diffusione degli impianti funerari, delimita “verso terra” il perimetro di Karali punica, segnato sul lato opposto dalla fisicità delle acque, ora lagunari e, immediatamente sottocosta, da una localizzazione di nuovo immateriale e evanescente, come quasi sempre quelle karalitane: l’area del santuario tofet di via San Paolo, cioè il luogo di localizzazione di quel recinto sacro che, come di regola negli insediamenti punici, si trova, con la necropoli, a segnare la delimitazione degli spazi urbani della comunità, i punti, critici e rituali, in cui la società dei viventi si incontra –e fa i conti –con la morte e con gli dei.
Tra la laguna, il colle e via San Paolo vi è il cuore dell’insediamento punico: i brandelli non visibili del tessuto della città antica nelle vie San Simone, Brenta, Po, Garigliano, Campo Scipione, Santa Gilla; vi sono le ricerche, numerose, di archeologi e appassionati, ma anche le operazioni disinvolte e mercenarie di palazzinari e imprenditori: una vicenda che inizia alla fine dell’Ottocento e che non è mai finita.
Il primo valore di Tuvixeddu è quindi quello di limite, di segnacolo forte di identità di una città scomparsa, nei resti e nel ricordo; ma è anche il faro che ci rivela quanto, all’ombra dei suoi pendii, può essere ancora recuperato e conservato; del resto sulla via Sant’Avendrace il frontone della “Casa della Vipera” ancora riesce –che sia una particolare qualità della luce di un momento o un blackout improvviso nella nevrotica attività quotidiana –a colpire l’attenzione di un passante e a dissolvere, per un minuto, le insegne dei fast food, di un’autocarrozzeria o i cartelli con le offerte di un discount.
Sento spesso affermare che Tuvixeddu è la più importante e grande necropoli punica del Mediterraneo: non so se questo sia effettivamente vero e credo che in ogni caso non sia una questione da porre.
Come a Ibiza o a Cartagine o a Sant’Antioco, la qualità delle testimonianze è di gran lunga vincente sulla quantità o la dimensione: se alcuni studiosi ricostruiscono per Tuvixeddu un numero di sepolcri stimato tra i 1500 e i 2000, preferisco ricordare la grande articolazione delle esperienze di ingegneria e di artigianato che esso conserva.
A cominciare dalla varietà delle soluzioni funerarie che si incontrano su questo immenso cimitero dell’antichità che, dopo le comunità puniche, fu usato in età romana: tra V e III secolo a.C. le maestranze puniche hanno disseminato sul colle semplici tombe terragne o in anfora, tombe scavate in roccia a fossa semplice o a pozzo, pozzi con camere singole, con camere sovrapposte e contrapposte, in uno straordinario fervore architettonico.
Le decorazioni, applicate a rilievo, a pittura o con la combinazione delle due tecniche, sono altrettanto varie: che siano i crescenti lunari e solari, la gorgone o l’idolo “ a bottiglia” scolpiti sulle parete frontale delle celle funerarie o i leggeri reticoli di colore che dividono geometricamente le pareti delle camere o quegli interni interessati da una decorazione più complessa e organica come la tomba c.d. “di Sid” o quella c.d. “dell’Ureo”.
Entrambe –questo è evidentemente il destino di Cagliari: riservare al proprio passato soltanto le pagine di un libro –non sono purtroppo accessibili; nella prima un personaggio maschile, interpretato come immagine divina, brandisce una lancia mentre nella seconda un fregio vegetale è ravvivato dall’immagine della Gorgone e del serpente cobra, appunto l’ureo, che appare comunemente nella gioielleria e nella produzione delle stele puniche.
Tutti questi motivi rendono la necropoli di Tuvixeddu un luogo di grande suggestione e significato per la comprensione non soltanto dei rituali e delle cerimonie del funerale attraverso la disposizione e la composizione degli oggetti di corredo e di accompagnamento dei defunti, ma per un recupero generale di quella tradizione culturale punica che, diffuso in tutti i rami dell’ artigianato e dell’iconografia, viene ripresa e rielaborata nella karalitana “città dei morti”.
Il colle, limite fisico e memoria culturale di Karali punica, “serve” anche a collocare, di nuovo nello spazio, e poi nel tempo, altre Karali antiche: in primo luogo quella città romana che gradatamente, sulla spinta economica e ideologica dell’imprenditoria italica, i famosi e ricchi mercatores, si muove verso gli spazi oggi segnati dall’attuale porto cagliaritano, con l’edificazione, in piazza del Carmine, del raffinato teatro-tempio di modello ellenistico, e che rapidamente occupa gli spazi attuali dei viali Trieste e Carlo Felice e ancora oltre.
Ma vi è anche una seconda Karali punica –o meglio tardo-punica, che si distacca da quella sbarrata da Tuvixeddu: è quella documentata dalla necropoli di Bonaria mentre, di nuovo distinto dalle due entità urbane, sembra essere il santuario di Astarte del Capo Sant’Elia, che presto finalmente sarà indagato.
Questi segni di riconoscimento e di differenziazione, di cui si è parlato, consentono di comprendere quanto differente dai modelli dell’urbanesimo contemporaneo o moderno sia stata la città antica e quanto sia difficile, per noi moderni, figli inevitabilmente del nostro tempo e dei suoi schemi, riproporne immagini adeguate alla realtà storica.
Un prossimo evento che riguarda la necropoli di Tuvixeddu forse potrà in qualche misura, mi auguro, aiutare a recuperare quella memoria di una città dissolta di cui ho parlato.