il diritto a una memoria condivisa
16 Maggio 2013Alfonso Stiglitz
“Città di Iglesias. L’anno milleottocentosettantasette, addì venticinque marzo a ore antimeridiane dieci e minuti trenta nella Casa comunale. Dianti a me Ingegner Cav. Angelo Perpignano Sindaco e Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Iglesias è personalmente comparso Giulio Stiglitz, di anni venticinque, impiegato civile, il quale dopo avermi presentato un Reale decreto del 1° corrente marzo dell’anno millenovecentosettantasette […] nel quale gli fu concessa la naturalità italiana, mi ha dichiarato che, al fine di conseguire la concessagli cittadinanza, fissa il suo domicilio in questo Comune, e mi ha quindi richiesto […] di ricevere il suo giuramento. Al che, aderendo io, egli ha prestato innanzi a me e nelle forme della legge il giuramento, pronunciando le parole «giuro di essere fedele al Re e di osservare lo Statuto e le leggi del Regno». Dopo di ciò il Decreto Reale di Naturalità, munito del mio visto, viene inserito nel volume degli allegati a questo registro [seguono le firme dei testimoni]”. Giulio sposò dopo alcuni mesi l’iglesiente Gemma Sanna e si godette il nuovo status di cittadino per pochi anni, morendo prematuramente nel 1886, sempre a Iglesias.
Ho voluto iniziare queste riflessioni sul dibattito per lo ius soli con la storia di una persona che pur non essendo nata in Sardegna, acquisisce la cittadinanza perché qui si trova per lavoro e qui intende restare. Argomento di attualità ancora oggi, dopo 136 anni, in un momento nel quale la normale presenza di cittadini italiani di cultura Rom a un seggio delle primarie PD di Roma riesce a tirar fuori il razzismo, la paura dell’altro (dei fantomatici ‘altri’) anche in luoghi e in persone insospettabili.
Una delle poche novità positive del discutibile governo Letta è quella del ministro all’integrazione, Cécile Kyenge, non tanto perché nera, quindi colorata come lo siamo tutti (bianchi, gialli, rossi, neri e, soprattutto, con le sfumature dei vari colori), ma perché nata altrove e diventata cittadina a tutti gli effetti e, ancora di più, perché intende portare avanti la sua battaglia per il riconoscimento della cittadinanza. La sua mera dichiarazione di uno ius soli ha scatenato la solita canea razzista, sia quella becera, tipo leghista-fascista, che quella ipocrita dei benpensanti, tanto più preoccupante in quanto ha tra i suoi protagonisti esponenti di forze politiche che esprimono il governo. È ovvio che lo ius soli è uno strumento che da solo non basta per affrontare e risolvere il problema perché, ad esempio, lascia fuori coloro che non sono nati sul sacro suolo patrio, ma è pur sempre l’inizio del cammino per arrivare al riconoscimento dell’uguaglianza tra le persone.
Infatti, Stefano Rodotà, nel suo bel libro “il diritto di avere diritti”, ci ricorda che declinare il tema dell’uguaglianza con “una impostazione tutta fondata sull’eguaglianza delle opportunità piuttosto che dei risultati” rischia di essere una mera petizione di principio astratta dalla realtà. La petizione dell’uguaglianza senza alcuna discriminazione (di sesso, religione, razza ecc. ) diventa priva di significato se non viene completata dal diritto alla cittadinanza, che è uno degli strumenti di riconoscimento sociale e di attribuzione di diritti e doveri concreti, con i quali esercitare la propria posizione nel mondo. Legare la cittadinanza allo ius sanguinis, cioè alla mera filiazione da altri cittadini, crea nei fatti una discriminazione basata sulla razza, anche se chiamata in altro modo; oggi va di moda l’uso del termine ‘etnia’ o ancor di più l’identificazione del DNA come determinante di appartenenza. Una discriminazione che si fonda su un dato fittizio, inesistente nella realtà ma determinato come tale da una precisa scelta politica discriminatoria. Come ci insegnano gli antropologi, la definizione dell’etnia di appartenenza non deriva da caratteristiche genetiche (DNA), di sangue o cromatiche, ma è una identificazione di tipo culturale di chi intende riconoscersi in un determinato raggruppamento umano e come tale partecipa alla sua creazione, a prescindere dai “reali” legami di sangue o altro; è un’adesione volontaria.
Tanto più in un’isola come la nostra nella quale siamo tutti “autoctoni venuti da fuori”, per usare la bella espressione di Marcelle Detienne. Il nostro stesso eroe eponimo, Sardo, venne con gli africani in Sardegna e si unì agli indigeni, dando il nome alla nostra isola. Potrebbe essere la Sardegna una delle patrie della nuova battaglia sul diritto di cittadinanza. Per noi vale il principio che è sardo chi vive in Sardegna, ma anche chi si riconosce come tale, così come lo è chi appartiene a famiglie che avendo vissuto nel passato in Sardegna, oggi sono emigrate e con l’isola hanno un mero rapporto di memoria. Questo crea una comunità che volontariamente si riconosce in se stessa, in cui ogni individuo, a qualsiasi titolo, dichiara di appartenervi; allora non possono esistere sardi di serie A, portatori di un DNA immaginario (e, purtroppo talvolta immaginato) e detentori di diritti di cittadinanza, come quello elettorale, anche se in Sardegna (ma vale anche per l’Italia, ovviamente) non ci vivono più, magari da generazioni e Sardi di serie B che pur vivendo nell’isola sono privi di ogni diritto.
Sarà importante partecipare, a partire dalla Sardegna, al dibattito e alla battaglia perché il diritto di cittadinanza elaborato con una pluralità di meccanismi, diventi quest’anno non solo una realtà ma un principio fondante di una nuova politica. Non solo diritto di suolo, quindi, ma diritto di partecipare e costruire una memoria condivisa che, proprio perché plurale, possiamo definire sarda.
PS.
Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Editori Laterza, 2012.
16 Maggio 2013 alle 16:36
Un argomento complesso e malinteso, ma di sicuro fascino e sofferenza, che non si può affrontare semplicemente, nè brevemente.
Ho trovato interessante questo sito, che mi permetto di consigliare:
http://www.identitario.it/
Un caro saluto, Alfonso,
Maurizio Feo