Il diritto a un lavoro e a un reddito
1 Febbraio 2014Marco Ligas
Mi sembra importante approfondire il dibattito che abbiamo promosso sul reddito di cittadinanza. Sinora non tutti lo hanno definito in questo modo: c’è chi ha parlato di lavoro di cittadinanza, chi di reddito minimo garantito, chi (come Luciano Gallino in altre sedi) di reddito di base.
Gianfranco Sabattini ha suggerito di non confondere le diverse formulazioni perché non esprimono lo stesso concetto.
È vero, credo però che nell’affrontare questo argomento sia opportuno precisare preliminarmente l’obiettivo che si vuole raggiungere. Diversamente si corre il rischio di dar vita ad una disputa attorno alle definizioni che ci allontanano dalla questione più importante, cioè capire se è necessario istituire un reddito di cittadinanza e a che cosa deve servire.
Sono del parere, se vogliamo dare una risposta che corrisponda ai bisogni di tanta gente, che questo tema vada affrontato assegnando alla politica un ruolo che non sia marginale. Non può dipendere ancora dal mercato, né dal suo andamento, né dall’accresciuta importanza delle attività finanziarie nel sistema economico. Nessuno può sottovalutare i condizionamenti di questi processi, ma guai a rimanerne risucchiati.
Naturalmente non si possono eludere le implicazioni di questa nuova impostazione; siamo consapevoli che mettono in discussione le scelte fatte dal nostro governo nel corso di questi anni in seguito alle imposizioni dell’Unione Europea, dal pareggio del bilancio alle modalità della restituzione del debito. Occorrerà dunque un atteggiamento più determinato e più autonomo del nostro governo nei rapporti con l’UE, la BCE, il FMI.
Fatte queste precisazioni ritengo che una politica tesa ad uscire dalla crisi non possa non partire dai problemi dell’occupazione. Si tratta di una strada obbligata. Tutti i dati che abbiamo a disposizione ce lo confermano e ci dicono che i posti di lavoro persi in questi anni sono tantissimi, per di più non sappiamo se e quando potranno essere recuperati. Questo succede nel nostro paese ma non solo, altri paesi europei non vivono condizioni diverse. Intanto nella nostra regione andranno ad esaurimento sia la cassa integrazione sia gli altri tipi di sussidi: tutto ciò aggraverà le condizioni di vita di tante presone.
Una conseguenza (fra le tante) di questi processi balza subito agli occhi: chi conserva il posto di lavoro riesce a malapena a mantenere la sua famiglia. Se ha dei figli, dal momento che non aumentano salari e stipendi ma solo il costo della vita, non può farli studiare sino all’Università. Figuriamoci cosa succede quando si perde il posto di lavoro. Lo studio dei giovani, soprattutto nelle famiglie colpite dalla disoccupazione, diventa una rarità. Non a caso oggi sono in calo le percentuali di scolarità a tutti i livelli. E questo fenomeno avviene proprio quando diventa più urgente la relazione tra il lavoro e la formazione.
È così astratto o comunque fuori luogo parlare in questa situazione di diritto ad un reddito di cittadinanza? Penso proprio di no, anzi è più che opportuno considerare auspicabile questa soluzione.
Forse è preferibile, come dice Gallino, parlare di reddito di base, ma la sua definizione non è certo l’aspetto più importante.
Chi deve usufruirne? Chi ne è privo.
So bene che a questo punto è immediata la domanda: e i costi?
Partiamo da quelli della cassa integrazione, la ordinaria e la straordinaria, aggiungiamo i sussidi di disoccupazione, tutti i piani di mobilità e i diversi sostegni che vengono dati saltuariamente a chi per diverse ragioni ne ha necessità. Sommando queste cifre non si arriva certo alla somma complessiva per coprire il fabbisogno dei redditi di base, però è già possibile raggiungere una quota rilevante. Integrandola con i fondi derivanti dal recupero dell’evasione fiscale e dalla tassazione progressiva di rendite e patrimoni sarebbe possibile un ulteriore, forse definitivo, passo in avanti. Non dimentichiamo che dai dati dell’attività della Guardia di Finanza emerge un’evasione fiscale relativa al 2013 di quasi 60 miliardi.
Ritengo comunque che il reddito di base, pur essendo una soluzione fondamentale per chi vive una condizione di povertà, non possa risolvere anche i problemi legati alla mancanza di lavoro.
La disoccupazione ha portato con sé non solo povertà ma anche la perdita di un ruolo personale e di appartenenza sociale. In questa situazione il rischio di una disgregazione della società è molto forte; perciò è necessario contrastarla anche con politiche che mantengano uniti giovani e anziani, lavoratori e disoccupati, insomma le diverse fasce della popolazione, oggi spesso in conflitto tra loro. E questo progetto può essere realizzato ancora una volta solo col sostegno pubblico: con la realizzazione di un piano per il lavoro. Si parla spesso di questo progetto, si trovano analogie con altri periodi storici, con la crisi del “29 o con la ricostruzione del dopoguerra, ma al di là delle citazioni non si va.
Eppure in Sardegna non mancano i settori dove sono indispensabili interventi di risanamento del territorio, di tutela dei beni comuni e di promozione di nuove attività produttive legate alle caratteristiche dei luoghi. Insomma c’è bisogno di una riconversione ecologica dell’economia e di un vasto programma di prevenzione delle calamità naturali, soprattutto dopo i disastri del 19 novembre. All’interno di questi progetti può realizzarsi anche una riconversione professionale dei lavoratori che spesso si lamentano perché non vogliono vivere di soli sussidi o assistenza.
1 Febbraio 2014 alle 10:11
Sono d’accordo nell’evitare dispute nominalistiche; la discussione può trarre giovamento se nel discorso si fa esclusivo riferimento alla definizione del “RdC” più ricorrente, tenendo conto che “reddito di cittadinanza” o “reddito di base” o “reddito di sussistenza” o “reddito universale” sono tutte espressioni equipollenti. Tutte esprimono un’erogazione monetaria a tutti coloro che sono dotati di cittadinanza (o che sono residenti), cumulabile con altri redditi (da lavoro autonomo, da impresa, da rendita), indipendentemente perciò dall’attività lavorativa effettuata, dalla nazionalità, dal sesso, dal credo religioso e dalla posizione sociale, ed erogato durante tutta la vita del soggetto.
1 Febbraio 2014 alle 17:31
Il problema mi sembra affrontato nella sua giusta dimensione, richiamando le giuste implicazioni legate alla sfera umana, per la mancanza di lavoro. Considerato che il sistema capitalista non potrà mai risolvere il problema occupativo, ( nessun cittadino deve restare senza lavoro) garantire il minimo reddito di sussistenza è un dovere sociale, ma in una società sana, deve essere considerato un intervento straordinario per le persone temporaneamente escluse dal mercato del lavoro. Nella crisi che ci investe, sembra assumere un fatto di normalità per miliononi di persone. Non mi sembra un fatto facilmente risolvibile, se non si pone mano al problema della grande evasione ( miliardi di capitali, non pagano le tasse, vengono esportati all’estero e quindi sottratti all’investimento nei luoghi dove sono stati lavorati., o prodotti): il
disastro è bell’e fatto. Ma se rientrassero, o se non uscissero questi capitali, e fossero investiti in Italia, ci sarebbe meno disoccupazione e ci sarebbero i soldi per pagare i redditi di cittadinanza più dignitosi, per i disoccupati…..
Ma restando pur anche all’interno dell’iniquo sistema capitalista, sarebbe così difficile programmare il monte ore lavorativo e distribuirlo per tutta la forza lavoro? dando dignità ad ogni persona? Certo bisogna ridurre le DISUGUAGLIANZE come dice Joseph E. Stiglitz, anche perchè se non ci fossero poveri staremo tutti meglio!