Il discredito della “scienza triste”
16 Aprile 2015Gianfranco Sabattini
È uscito di recente in libreria “Houellebecq economista” (si tratta di Michel Houellebecq, l’autore di “Sottomissione”), l’ultimo libro di Bernard Maris, morto nella strage di Charlie Hebdo; il saggio è una provocazione dalla prima all’ultima riga, così come lo era stato un precedente lavoro di Maris, “Lettera aperta ai guru dell’economia che ci prendono per imbecilli”, in cui l’economista magrebino, docente di economia all’Università di Toulouse, aveva compiuto un’analisi impietosa della scienza economica e dell’attività dei suoi “addetti ai lavori”. In entrambi i casi si è trattato di una provocazione, perché, se così non fosse, ci sarebbe da chiedersi come un critico così tranchant della scienza economica abbia potuto insegnare economia in patria e all’estero e come abbia potuto essere membro del Consiglio Generale della Banca di Francia.
Maris era profondamente convinto che l’economia non fosse una scienza con cui analizzare il presente o, peggio, prevedere il futuro; egli sosteneva che nessuno, meglio dell’amico romanziere Houellebecq, era arrivato a cogliere «la cancrena economica che pervade la nostra epoca». La condivisione della critica dell’economia di Houllebecq lo ha portato a criticare il mito liberale dell’equilibrio, connesso al gioco della domanda e dell’offerta e sorretto dalla logica del capitalismo, che in altro non sarebbe consistito, se non in uno stato di guerra permanente, una lotta perpetua destinata a non avere mai una fine.
A descrivere la logica che sorregge il mito dell’equilibrio si sarebbe dedicata, secondo Maris, la “setta” degli economisti che da decenni ripeterebbero un discorso ermetico e fumoso. Quale “scienza triste”(joiless sciece) o “scienza fosca” (dismal science), come la chiamava con etichette colorite Thomas Carlyle, l’economia sarebbe la “cenere con cui il nostro tempo ricopre la sua triste faccia”. Sembra inverosimile – affermava l’economista collaboratore di Charlie Hebdo – “che una civiltà abbia potuto accordare tanta importanza a una disciplina non solo vuota ma terribilmente noiosa […]. Disciplina che della scienza ha solo il nome e della razionalità solo le contraddizioni […]. Che un premio internazionale, battezzato Nobel da coloro che ne usurpano il nome […] sia stato attribuito per delle chiacchiere condite di equazioni a dei ricercatori di chimere”.
Non si può che rimanere perplessi e basiti, di fronte a giudizi che sembrano non ammettere repliche, espressi nei confronti di una scienza che, pur coi molti limiti che la connotano, ha contribuito al riscatto dall’indigenza nella quale versava l’intera umanità sino alla sua consacrazione come disciplina scientifica autonoma, alla fine del XVIII secolo, per merito dei contributi di insigni studiosi che da allora si sono succeduti nel tempo sino ai nostri giorni. I giudizi di Maris sull’intero corpo della teoria economica e sui suoi addetti appaiono simili a una farsa satirica, degna di una redazione come quella di Charlie Hebdo, della quale Maris era autorevole esponente; quei giudizi, però, se possono valere per alcuni indirizzi moderni della scienza economica, sono del tutto fuori luogo, per non dire blasfemi, se riferiti all’intero corpo della teoria economica; mancanti, tra l’altro, del necessario rispetto dovuto a chi, disinteressatamente, ha contribuito alla sua costruzione.
Se i giudizi di Maris avessero un qualche fondamento, sarebbe disconosciuto l’impegno profuso da Adma Smith, David Ricardo, Karl Marx, Alfred Marshall, Joseph Schumpeter, Irving Fisher, John Maynard Keynes, Paul Samuelson, Amartya Sen e da molti altri ancora, per salvare l’umanità dal terribile destino cui i secoli antecedenti la fine del XVIII sembravano averla condannata. Non sempre, tuttavia, l’elaborazione teorica e le sue applicazioni si sono rivelate produttive di conseguenze utili per l’umanità.
Ciò è accaduto, non tanto e non solo quando gli economisti non sono stati in grado di prevedere l’insorgenza di crisi ricorrenti nel funzionamento stabile dei sistemi economici, o di curare la loro instabilità susseguente al verificarsi delle crisi, ma anche quando essi, durante il processo di assiomatizzazione della loro disciplina, privilegiando il momento del rigore analitico e la considerazione di aspetti particolari della realtà economica rispetto al momento della fondazione empirica e della considerazione del funzionamento dell’intero sistema economico, hanno determinato la scomparsa della dipendenza della teoria economica dai fatti storici, astraendola rispetto ad essi e trasformandola progressivamente in un apparato logico-formale, costituito esclusivamente di “dati” ed “equazioni”.
Il sempre più frequente uso acritico di una scienza economica resa sempre più astratta ha portato i suoi “preti”, cioè gli economisti, ad essere, secondo un’espressione di Karl Raimund Popper, vittime della più pericolosa delle ideologie, consistente nel pensare che una cosa astratta sia concreta, esponendosi perciò al rischio (come spesso è avvenuto) di perdere ogni credibilità professionale. Il progressivo svuotamento di ogni riferimento fattuale ha portato spesso l’economia a non poter essere utilizzata con successo per scopi normativi. Infatti, quando gli economisti hanno preteso di esorcizzare il futuro dei sistemi sociali da probabili “insidie” non hanno potuto che fallire nel loro intento ed esporre la loro scienza alle sferzate della satira tagliente, come quella di Bernard maris.
A trarre la teoria economica e gli economisti da ogni possibile bocciatura inappellabile resta, però, il contributo di quanti hanno inteso mettere l’uomo nella condizione di forgiare il proprio destino; desiderio che, come ha sostenuto Alfred Marshall, è stata la molla principale di quasi tutti coloro che si sono dedicati agli studi economici; gli economisti del suo tempo, infatti, ispirati dai grandi progressi che le scienze naturali avevano potuto realizzare dopo essersi liberate dalle catene dei secoli bui, hanno iniziato a forgiare uno strumento per creare, non solo un’opulenza materiale mai vista prima, ma anche una straordinaria ricchezza di nuove opportunità. Un tale strumento, cioè l’ideale organizzazione di un libero sistema economico inquadrato all’interno di un libero sistema politico, ha consentito di cambiare progressivamente la vita di tutti gli abitanti del pianeta, consentendo all’organizzazione economica e politica della società l’elaborazione delle modalità utili a dare corpo all’idea di una giustizia sociale realizzata nel rispetto dei principi di efficienza e di libertà individuale.
I padri della scienza economica, dunque, sono sempre stati motivati, non solo dalla curiosità intellettuale, ma anche, e forse soprattutto, dal desiderio che le loro idee potessero essere usate per promuovere sistemi sociali caratterizzati dalla libertà individuale e dall’abbondanza, invece che dalla rovina morale e materiale. Come lo stesso Johm Maynard Keynes pensava, la teoria economica è stata così trasformata in un motore d’analisi in grado di separare il “grano dell’esperienza dalla pula”, convinto che le idee economiche potessero consentire di trasformare il mondo più di quanto era stato reso possibile con la messa a punto del motore a vapore.
Sennonché, per effetto dell’applicazione di una “cattiva teoria economica”, perché estraniata dalla storia e dai reali stati di bisogno degli uomini, questo mondo sta sprofondando nell’instabilità, nell’incertezza del futuro e nell’ingiustizia sociale, anche se in presenza di un aumento della speranza di vita; illusione, questa, che – afferma Maris – “non fa che stiracchiare delle vite fallite, come le creme antinvecchiamento vorrebbero stiracchiare le rughe”.
Occorre che gli uomini si riapproprino dello “strumento” che i padri fondatori della scienza economica ci hanno lasciato in eredità, prima che i rudi costruttori del mondo attuale lo distruggano completamente, in nome di una crescita senza limiti e di regole per una presunta civiltà del benessere; solo presunta, in quanto riservata a pochi, con l’esclusione dei più che, privati della possibilità di una piena realizzazione dei propri progetti di vita, possono garantirsi la sopravvivenza ad un livello ben al di sotto delle possibilità potenziali, nell’incertezza quotidiana, come se fossero chiamati a partecipare costantemente agli esiti di una lotteria nazionale o a scommettere ad una corsa ai cavalli.
Fonte foto