Il golpe in slow motion del Venezuela
1 Febbraio 2019[Maurizio Matteuzzi]
Dopo il golpe blando in Brasile del 2016 contro il governo del PT – l’impeachment di Dilma Rousseff, la proscrizione di Lula mediante le manipolazioni giudiziarie del giudice Moro, la (ir)resistibile ascesa del proto-nazista Bolsonaro -, ecco il golpe del 23 gennaio in Venezuela contro il governo chavista di Nicolás Maduro.
Magari, come Dilma, Maduro è un pessimo presidente ma, come era Dilma, è il presidente legittimo. E tutto lascia credere che in Venezuela il golpe – dall’esito incerto, tuttora in corso in questi giorni, in queste ore drammatiche – non sarà blando come quello in Brasile. I morti, di entrambe le parti, negli scontri delle ultime settimane sono già una quarantina, gli arresti diverse centinaia.
Un golpe di nuova generazione. In slow motion. Prima i golpe si facevano all’ora x e quasi sempre in uniforme, con una sequenza precisa: prendere il potere all’interno e poi aspettare il riconoscimento internazionale. Con il golpe in corso in Venezuela, l’ordine dei fattori è invertito: prima si annuncia il golpe e si ricevono i riconoscimenti internazionali a cascata, poi si aspetta che il potere arrivi come una pera matura.
Questo è accaduto – sta accadendo – in Venezuela. Dove tutto è reso ancor più complicato dal fatto che le forze armate, da cui l’opposizione auspica il golpe in cambio dell’amnistia, non solo stanno (finora) con Maduro ma sono parte integrante del potere bolivariano.
Tutto è cominciato il 5 gennaio quando l’Assemblea nazionale – messa da parte con metodi spicci da Maduro dopo che nel dicembre 2015 l’opposizione aveva vinto la maggioranza dei due terzi, e soppiantata nel 2017 dall’Assemblea costituente che ne ha fagocitato le funzioni – ha approvato una risoluzione in cui si certificava che Maduro è un “usurpatore” e si eleggeva il giovane carneade Juan Guaidó, del partito Voluntad Popular (nominalmente social-democratico ammesso all’Internazionale Socialista), come nuovo capo “ad interim” dell’esecutivo.
La via era spianata per la proclamazione del giovanotto, che mercoledì 23 gennaio ha giurato (sulla costituzione bolivariana) quale presidente provvisorio in vista di prossime elezioni.
Proclamazione o meglio auto-proclamazione, o meglio ancora etero-proclamazione: il video di Mike Pence, il vicepresidente USA (“siamo con voi”), il twitter del senatore di origine cubana della Florida Marco Rubio (“un gran giorno per la democrazia”), poi lo stesso Trump che dopo pochi minuti lo ha “ufficialmente” incoronato come presidente. A seguire riconoscimenti a cascata. In America, oltre agli USA, il fedele Canada, i 13 latino-americani del Gruppo di Lima (costituito nel 2017 ufficialmente per cercare una soluzione alla crisi venezuelana) e buona parte di quelli dell’OSA, l’Organizzazione degli Stati Americani che sotto la guida del “compagno” socialista uruguayano Luís Almagro (ex ministro degli esteri con il presidente Pepe Mujica e poi, grazie a dio, espulso dal Frente Amplio) è tornata a essere “il ministero delle colonie” di Washington. In Europa la Spagna a tirare la volata rivendicando il suo ruolo storico passato e soprattutto futuro nell’Eldorado venezuelano (il premier socialista Pedro Sánchez a complimentarsi con Guaidó per il suo “grande coraggio”, gli immarcescibili “compagni” Felipe González e Alfonso Guerra: Maduro “peggio che un dittatore” dice il primo, Maduro “peggio di Pinochet” dice il secondo, con tanti saluti al povero Rodríguez Zapatero che fino all’ultimo si è provato a mediare); la Unione Europea che, senza distinzioni fra i liberal-liberisti al potere a Bruxelles e i “sovranisti-populisti”, sostiene il diktat imperiale USA (buffo, no?) e dà gli otto giorni a Maduro, scadenza sabato 2 febbraio: o nuove elezioni “libere e trasparenti” subito o riconoscimento immediato di Guaidó. Poi Israele, Australia e via andare.
Unici a mettersi di traverso, al momento, la Bolivia di Evo Morales e Cuba, che sostengono senza se e senza ma il regime bolivariano; il Messico del neo-presidente López Obrador e l’ Uruguay del Fronte Ampio che, in nome dell’ “autodeterminazione” e della “non interferenza”, auspicano un improbabile dialogo; papa Bergoglio che, con prudenza, non si fa risucchiare dall’episcopato venezuelano, tradizionalmente anti-chavista (il segretario di stato Pietro Parolin fu a suo tempo nunzio apostolico nel Venezuela di Chávez); Russia e Cina (che in Consiglio di sicurezza hanno stoppato l’offensiva del segretario di stato USA, Mike Pompeo, a nome delle “forze della libertà”), Turchia e Iran.
Una riesumazione tardo-imperialista della dottrina Monroe, che Spagna e UE cercano di contrastare sullo stesso terreno. Uno scenario da guerra fredda con gli USA dell’ “isolazionista” Trump impegnati a rifare dell’America latina il cortile di casa.
D’altra parte non si può non ricordare che, così come il famoso muro che Trump vuole costruire lungo il confine con il Messico cominciò a costruirlo il “liberal” Bill Clinton, fu il simpatico Barak Obama, marzo 2015, a firmare un decreto in cui definiva il Venezuela “una minaccia straordinaria alla sicurezza nazionale” degli Stati uniti (con relative sanzioni economiche e attività coperte di destabilizzazione).
Un copione già visto, scritto da fuori, senza per questo voler sminuire la terribile crisi umana, politica, economica del Venezuela. 17 anni fa, aprile 2002, gli USA di Bush organizzarono il golpe (appoggiato subito dalla Spagna di Aznar) che portò al potere, per qualche giorno, il capo degli industriali Pedro Carmona. Ora ci riprovano con il carneade Guaidó in una situazione tragica (inflazione prevista dall’FMI per il 2019 a 10 milioni per cento, povertà al 60%, tre milioni di emigrati, violenza, corruzione) e in un contesto favorevole: la primavera latino-americana del primo decennio del secolo XXI è finita e in America latina è tornato l’inverno. La spinta inclusiva e integratrice che aveva in Hugo Chávez (e nel suo petrolio) il fiammeggiante caudillo si è esaurita. Ora, dopo la grande crisi economica globale, lo scacchiere sembra tornato quello di prima. Al governo non ci sono più i Lula, i Chávez, i Correa, i Kirchner, la pur pallida Bachelet ma i Bolsonaro, i Macri, i Piñera, i Moreno in Ecuador, i Duque in Colombia (dove il consigliere per la sicurezza nazionale USA Bolton ha appena fatto sapere che stanno arrivando 5000 marines…).
E l’ “isolazionista” Trump (via dalla Siria, via dall’Afghanistan), guarda caso, ha riesumato per l’occasione i vecchi arnesi dell’imperialismo neo-con: i Bolton, gli Elliot Abrams (Iran-contra-gate, guerra sporca in Centramerica) che si occupano del dossier Venezuela e dicono: “siamo pronti”. Non solo all’asfissia e alle sanzioni economiche e petrolifere già in atto: a tutto.
Maduro non è Chávez, che con le sue luci ed ombre (prima fra tutte non aver saputo diversificare il micidiale modello petro-estrattivista dell’economia venezuelana) è stato un grande. Maduro non è il “nostro” eroe, ammesso che esistano ancora eroi. Come diceva nel giugno 2017 François Houttart, prete cattolico e sociologo marxista, a proposito del Venezuela, “una rivoluzione che non assicuri (qualunque sia la ragione) le basi materiali per la vita della popolazione non ha futuro, e i suoi avversari lo sanno bene”.
La deriva del Venezuela di Maduro non può essere letta solo come il risultato del complotto interno della borghesia e dell’accerchiamento esterno, statunitense e ora latino-americano, anche se ci sono stati, ci sono e fanno sentire la loro stretta soffocante. Il Venezuela di Maduro probabilmente non è la Stalingrado dei popoli in lotta per l’auto-determinazione come scrivono gli ultrà, e come fu la Cuba castrista nella seconda metà del secolo scorso.
Ma è certo che dietro la guerra in e per il Venezuela di questi giorni, di queste ore, s’intravvede sempre più nitidamente e si può materializzare un incubo: il modello Libia. Diritti umani? No, petrolio.
Improbabile che l’offerta lanciata da Maduro mercoledì 31 – elezioni anticipate, ma per il parlamento, non per la presidenza che scadrà (scadrebbe?) nel 2025– sia sufficiente ad allontanare gli scenari più cupi.